Dario Franceschini è un uomo ambizioso. Ma anche deciso. Non c’è incontro, manifestazione, occasione in Italia oppure all’estero, nella quale non lanci il suo sasso nello stagno. Nella quale non rivendichi il suo grande lavoro. La sua rivoluzione. Altro che patrimonio in abbandono! Altro che luoghi della cultura per pochi intimi! L’Italia dei musei, delle aree archeologiche e dei monumenti regala numeri incredibili. Incassi e ingressi crescono in maniera impressionante.

Circa 50 milioni di euro in più di incassi tra il 2013 e il 2016, pari ad un + 38,4%, con un trend ancora in crescita nel 2017, pari ad + 13,5%, mentre i visitatori passano dai 38,4 mln del 2013 ai 45,5 del 2016, con un incremento del 18,5%. “La riorganizzazione sta dando i suoi frutti”, dice il ministro.

I dati regionali lo dimostrano. In cima alla classifica c’è il Lazio che è passato dai 17,7 milioni di visitatori del 2013 ai 20,3 del 2016. Con un incasso cresciuto da 55,2 a 67,6 milioni di euro. Il tutto per non parlare dei 30 musei autonomi, insomma i Musei di Franceschini. Lì si è registrata una crescita del 28,4% degli introiti e del 19,3% dei visitatori e un trend in crescita anche nel 2017, con un + 14,5% introiti e un + 11% visitatori.

È un bilancio entusiasmante”, ha detto il ministro. Come dargli torto? Perché provare a ridimensionare quel quadro così straordinario? Nel quale ci sono solo dei “più”. Più visitatori e più incassi. Ma anche più politica nelle politiche culturali, come forse mai prima.

Se non accadesse che quel bilancio entusiasmante è il risultato di una concezione distorta del patrimonio, Franceschini avrebbe ragione. Ma non è così. Non è così perché il suo Ministero ha suddiviso l’Italia dei Beni culturali. Da una parte una sparuta élite, insomma i siti da record che sono nella top ten degli ingressi e degli incassi. Dall’altra tutti gli altri, quelli che sopravvivono, nell’emergenza. Lo dimostrano quegli stessi numeri che orgogliosamente presenta.

Prima di lui il Mibact era un dicastero con pochi fondi e scarsa autorevolezza, nel quale il ministro di turno prendeva decisioni una tantum. Nessun disegno complessivo, nessuna strategia che non fosse funzionale alla sistemazione di qualche uomo di partito oppure alla realizzazione di qualche operazione dalla scientificità incerta. Con lui, ecco il cambio. Il ministero negletto diventa la plancia di comando, dalla quale muovere le pedine. Musei e aree archeologiche sono laboratori nei quali sperimentare la nouvelle vague. Regole? Certo, le regole ci sono, ma sono nuove anche esse. Sono quelle che prima stabilisce insieme a Renzi e poi, una volta uscito di scena l’ex sindaco di Firenze, decide lui solo. Così il ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo diventa il ministero del Turismo. Un dicastero per il quale il patrimonio è lo strumento per far cassa. Per rastrellare soldi dove possibile.

Ma il problema non è neppure questo. Il problema non è l’adoperarsi per accrescere gli introiti, ma sostanzialmente il disinteressarsi delle modalità che permettono di raggiungere lo scopo. Un Museo cresce se aumentano gli ingressi e quindi gli incassi, naturalmente. Ma anche se quel Museo diventa realmente un luogo della cultura di un pezzo di città, oppure di un paese, come di un territorio. Un Museo non è un’attività commerciale e neppure una sala da ballo, oppure passerella per sfilate di moda. Mischiare mozzarelle di bufala, balli e capi di una griffe e shakerarli nelle sale di un Museo non è entusiasmante. E’ solo un ibrido senza identità.

I numeri di Franceschini sono l’inizio della fine. Un fuoco fatuo. Un insuccesso mascherato da successo. Il risultato di un processo che prosegue sulle gambe, anche se non ha testa. Numeri dietro i quali c’è un vuoto sempre più incolmabile. Accorgersene non è poi così arduo. E’ sufficiente viaggiare per l’Italia, soprattutto attraverso le parti meno pubblicizzate.

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