Oggi il Financial Times ha pubblicato la lista OUTstanding, una classifica di personaggi del mondo finanziario e aziendale con ruoli di leadership come modelli per le persone Lgbt, perché Lgbt essi stessi o perché “alleati” della comunità. Antonio Zappulla, membro di Wake up Italia-London e Chief operating officer della Thomson Reuters Foundation, è comparso nella top five della sezione Settore pubblico.
Congratulandoci per il prestigioso riconoscimento, pubblichiamo in italiano il testo di un post già pubblicato sul sito della Thomson Reuters Foundation, che Antonio ha adattato per questo blog.

di Antonio Zappulla*

Oggi sono comparso nella categoria Public sector della lista OUTstanding: Lgbt leaders and allies today presentata dal Financial Times. La classifica è dedicata ai “leader Lgbt e agli alleati”, includendo quest’anno per la prima volta figure impegnate nel settore pubblico o nel terzo settore. E’ una manifestazione di fiducia incredibile e un vero onore, quello di figurare al fianco di molti altri leader che si stanno facendo fautori di iniziative concrete per l’uguaglianza delle persone Lgbt+.

Recentemente mi è stato chiesto che bisogno ci fosse di una classifica per professionisti Lgbt+ e alleati. “Non rischi di creare un ghetto?” è la domanda che mi viene testualmente rivolta. Quella pubblicata dal quotidiano economico londinese, però, non è semplicemente una classifica. E’ un modo per mandare un messaggio forte: la comunità Lgbt è l’opposto del ghetto; al contrario è assolutamente integrate nel nostro modello economico. Non vergognatevi di essere chi siete; sostenete l’inclusività, fatela vostra e vincerete. Ignoratela, a vostro rischio.

Mi identifico sulla base del mio orientamento sessuale? Ovviamente no. Ogni essere umano è molto di più del suo orientamento sessuale, e nessuno di noi dovrebbe essere stereotipato o incasellato. A volte, però, bisogna vere il coraggio di affrontare la discriminazione e il pregiudizio, e aprire la strada agli altri per favorire un reale cambiamento. Sono cresciuto in Italia, e i modelli Lgbt per me erano inesistenti. Nessuno era ufficialmente out a scuola, in tv, in Parlamento, o in città. Io stesso non volevo mettermi in discussione.

La ragione? Non avevo nessun punto di riferimento. Nessuno con cui relazionarmi. Temevo che fare coming out significasse rinunciare a una carriera e perdere i miei amici. Ero anche estremamente spaventato dalle possibili conseguenze e del pettegolezzo che avrebbe potuto fare soffrire la famiglia. Una famiglia che peraltro si è rivelata più che eccezionale su questo fronte. Ho avuto la fortuna di essere approdato a Londra per i miei studi: qui, ancor prima di finire l’università, ho cominciato la mia carriera nei media lavorando come reporter per un grande canale d’informazione economica: Bloomberg television.

Guardandomi indietro, non avrei potuto essere la persona che sono se non fosse stato per la mia vita a Londra e per l’ambiente in cui mi sono trovato. La mia prima capa era una donna dichiaratamente lesbica; il suo capo era un uomo dichiaratamente gay. Mi sono sentito immediatamente a mio agio. Ma io sono stato fortunato: il settore televisivo è notoriamente inclusivo e aperto.

La realtà, però, è che anche nei paesi più progressisti essere dichiarati sul luogo di lavoro non è scontato. E’ ancora un problema. Secondo un rapporto della Human rights campaign (Hrc), il 62% dei laureati Lgbt negli Stati Uniti, al momento di cominciare il primo lavoro, “rientra nell’armadio”, come si dice in gergo, per indicare che ricomincia a nascondere la propria identità di genere o l’orientamento sessuale.
Anch’io sono stato “nell’armadio” sul luogo di lavoro, per poco tempo. Lavoravo in un team di italiani, qui a Londra. Assistevo tutti i giorni a un quantitativo ributtante di battute triviali. Avevo il terrore di essere scoperto. Ogni lunedì era orribile: dovevo inventarmi frottole su quello che avevo fatto nel weekend, stando ben attento a non sbagliarmi coi pronomi.

Nessuno dovrebbe provare questo trattamento. E’ moralmente ingiusto e non ha senso. Nel mio team ero fra le persone di punta, ma sono scappato a gambe levate. Perché mai avrei dovuto svegliarmi al mattino per andare a lavorare e sentire la parola “frocio” usata con la stessa naturalezza della parola “caffè“?

Lo stesso rapporto della Hrc ha riscontrato che il 26% delle persone Lgbt resta nel proprio lavoro perché l’ambiente è inclusivo. E’ una situazione mutualmente vantaggiosa. Secondo un’altra ricerca, di Credit Suisse, le aziende con staff dichiaratamente gay superavano la concorrenza di più di tre punti percentuali in termini di performance. Eppure, la stessa ricerca rivela che il 72% dei quadri aziendali Lgbt non era dichiarato sul lavoro. Ecco perché le classifiche sono importanti. Chiaramente, l’idea di essere se stessi al lavoro non è così ovvia come verrebbe da pensare.

Oltre metà dei paesi del mondo non adotta misure per contrastare la discriminazione sul lavoro. Il mondo aziendale ha un grande ruolo nella promozione di uguaglianza e rispetto. Così facendo, contribuisce a creare una società più giusta e più forte. Voglio vivere in un mondo in cui l’orientamento sessuale sia irrilevante come il colore degli occhi delle persone. Ma siamo ben lontani da questo risultato. Fino ad allora, parliamo ad alta voce, orgogliosi di quello che siamo, e diamo l’esempio.

* direttore generale (Chief operating officer) della Thomson Reuters Foundation

Articolo Precedente

Bolzaneto, Italia condannata ancora dalla Cedu. Pd: “Ma ora c’è reato tortura”. M5s: “Falso”. E il commissario Ue: “Non basta”

next
Articolo Successivo

Biotestamento, dopo gli 8 annunci la relatrice dem De Biasi si dimette. “Ora il testo in Aula”. Ma incognita tempi

next