Padri che non sfruttano il congedo parentale, parità nelle faccende domestiche che resta una chimera, pochi asili nido e troppo cari. Il risultato? Sale il numero delle mamme lavoratrici che si dimettono per motivi legati alla cura della famiglia. L’Ispettorato nazionale del lavoro si occupa ogni anno di monitorare le convalide delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali di lavoratrici madri e lavoratori padri presentate tra l’inizio della gravidanza e il compimento del terzo anno di vita del bambino. “Nel 2016 – spiega a ilfattoquotidiano.it Roberta Fabrizi, dirigente della direzione centrale Vigilanza, affari legali e contenzioso dell’Ispettorato del lavoro – il 78% delle richieste di dimissioni ha riguardato le lavoratrici madri”. Il tutto in un Paese che ha un tasso di occupazione femminile faticosamente salito al 48,8%, contro una media europea del 62,5%. C’è tutto questo dietro la fotografia scattata dall’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che qualche giorno fa ha presentato il rapporto sulle competenze dei lavoratori italiani nel quale si rileva che le donne sono considerate “assistenti familiari” in quanto svolgono gran parte del lavoro domestico non retribuito.

LE MAMME CHE LASCIANO IL LAVORO – Nel 2016 sono state convalidate dalle ex Direzioni territoriali del lavoro 35.003 tra dimissioni e risoluzioni consensuali. Come nel 2015 si tratta soprattutto di dimissioni (33.791), mentre le risoluzioni consensuali continuano a rappresentare soltanto il 3% del totale. Sono 29.879 le lavoratrici madri che hanno lasciato il lavoro o hanno risolto il contratto e sono concentrate in due fasce di età, tra i 26 e i 35 anni (17.737) e tra i 36 e i 45 anni (8.764). Questi i dati della relazione annuale dell’Ispettorato del Lavoro. “In particolare – aggiunge la dirigente – nel 2016 le dimissioni presentate dalle sole lavoratrici madri sono state 29.019 (a fronte delle 7.467 dei padri)”, mentre le risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono state 860 (392 quelle relative a lavoratori padri). Due le precisazioni. In primis questi dati riguardano i primi tre anni di vita del bambino e non registrano la situazione, ad esempio, di una madre che si dimette quando il figlio ha 5 anni. In secondo luogo per le rilevazioni del 2016 sono stati acquisiti anche i dati di Sicilia e Trentino Alto Adige che hanno uffici territoriali autonomi e che lo scorso anno non c’erano. È opportuno ricordarlo per un raffronto tra il dato nazionale del 2016 e quello del 2015.

LE MOTIVAZIONI – Secondo il rapporto, poi, i dati sul numero dei figli e le motivazioni del recesso indicano inequivocabilmente “la persistenza di una maggiore difficoltà di conciliazione tra vita familiare e lavorativa” soprattutto in determinate fasce di età. Confermato il trend del 2015 per cui gran parte dei lavoratori e delle lavoratrici che si dimettono o risolvono un contratto consensualmente hanno un solo figlio o sono in attesa del primo figlio e rappresentano circa il 60% del totale. Rilevanti sono le motivazioni riconducibili alla difficoltà di conciliare il lavoro e le esigenze di cura dei figli che nel 2016 hanno riguardato 13.854 genitori, con un incremento di oltre il 44% rispetto a quelle rilevate nel 2015. E si tratta prevalentemente di lavoratrici (13.521). Queste motivazioni costituiscono circa il 40 per cento del totale delle ragioni addotte, con un aumento di 9 punti percentuali rispetto al dato rilevato nel 2015. Nei colloqui con gli ispettori, tra le cause che portano all’abbandono del posto di lavoro, ci sono soprattutto l’assenza di familiari che possano dare una mano (il 40% delle segnalazioni in più rispetto al 2015), il mancato accoglimento dei figli al nido (il 63% in più), ma anche un’elevata incidenza dei costi per il bebè (dal nido alla baby sitter) che ha fatto incrementare del 10%  i casi di dimissioni.

GLI ASILI NIDO – Dati che confermano la carenza di strutture di accoglienza sul territorio nazionale ma anche l’importanza del “ruolo di supporto svolto dalle famiglie di origine delle lavoratrici (e dei lavoratori) per consentire la prosecuzione dell’attività lavorativa in presenza di figli”. Secondo i dati Istat, sui 13.459 asili nido esistenti in Italia il 35% è pubblico e il 65% privato per un totale di 360.314 posti disponibili (163mila nei pubblici), ma solo il 12% dei bambini fino a 2 anni usufruisce del nido pubblico. Il tutto mentre restano bloccati i 229 milioni previsti dal decreto legislativo sul ‘sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni’ del gennaio 2017 e stanziati proprio per i nidi. In assenza di questo tipo di sostegno le donne, come tra l’altro rilevato sempre dall’Ocse in uno studio di qualche mese fa, sono destinate a dedicare in media al lavoro “non pagato”, per la cura dei figli, dei parenti e della casa oltre cinque ore al giorno. Un dato che le piazza al quarto posto tra quelle dei Paesi Ocse. Colpa della scarsa collaborazione dei partner in Italia, con appena 100 minuti al giorno in media. Ne consegue anche ciò che accade con i congedi dal lavoro.

I CONGEDI DAL LAVORO – L’Ocse ha lanciato un messaggio chiaro: “Bisogna incoraggiare i padri a richiedere più permessi retribuiti per i figli”. Non è un caso se a beneficiare dei congedi parentali sono soprattutto le donne, come confermato dai dati dell’Inps. Quelli più recenti disponibili sono del 2016. Si tratta di dati provvisori ma attendibili e molto significativi: lo scorso anno, per esempio, tra i 306.701 lavoratori dipendenti del settore privato che hanno beneficiato del congedo parentale, 254.571 sono mamme e 52.130 papà. L’enorme distacco tra uomini e donne nella richiesta di congedi è una costante. Nel 2015 su 298.313 beneficiari, 253.613 erano donne e 44.700 uomini. Qualche speranza arriva dai numeri sul congedo di paternità obbligatorio introdotto nel 2012 dalla legge Fornero. Nel 2016 l’hanno chiesto 89.495 papà, nel 2015 erano stati 70.348. Un segnale positivo, forse l’unico, anche alla luce del trend delle nascite che nel 2016 è in discesa: si è passati – dati Istat – da 486mila a 474mila, circa 12mila in meno. Altra storia quella del congedo facoltativo richiesto dagli uomini. Se nel 2015 ne hanno beneficiato solo 9.590 papà, lo scorso anno il numero è sceso a 9.128.

Una situazione difficile da sbloccare. Non meravigliano in questo contesto le parole del presidente dell’Inps Tito Boeri in risposta all’idea avanzata qualche settimana fa dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti di uno ‘sconto’ sui requisiti contributivi per le donne con figli (sei mesi per figlio) che intendono accedere all’Ape social. Secondo Boeri “bisogna evitare le scorciatoie per affrontare il problema di fondo, cioè la mancanza di potere contrattuale delle donne”. E la mancanza di un piano serio di sostegno alla famiglia che vada oltre gli interventi a gocce, come i bonus di 80 euro mensili per ogni bimbo o ‘Mamma domani’. Un piano, però, che non sparisca nel nulla (subito dopo l’annuncio) come quello dell’ex ministro Enrico Costa.

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