Il 23 maggio 1992, quando venni a sapere della morte di Giovanni Falcone dalla tv, fu come se fosse morto Paperino.

Falcone da alcuni mesi lo conoscevo dai giornali e dalla tv. Ritagliavo gli articoli che lo intervistavano, avevo in camera delle sue foto sorridenti prese da l’Espresso. Una in particolare: dopo che aveva aperto una finestra e sorrideva pieno, coi baffoni in giacca e cravatta. Avevo letto che lui e la moglie Francesca Morvillo non avevano voluto avere figli pensando che prima o poi uno di loro due sarebbe stato ucciso dalla mafia, e loro sarebbero rimasti orfani. Questa era una cosa che mi aveva tanto colpito, e che mi aveva fatto dire, a 18 anni, “ma non è giusto, però”.

La notizia la ebbi da un’edizione speciale del tg. Non ricordo quale, stranamente. Corsi nello studio di mio padre e gli telefonai per dirgli quel che era successo, piangendo. Papà era a Bucarest per un film. Rimase attonito. Il 23 maggio e il 19 luglio 1992 sono le date che mi svezzarono, la definitiva uscita dall’adolescenza. Il 23 giugno andai a Palermo con il pullman della Cgil. Diciotto ore di strada, da Roma. Ci andai con alcuni amici del cuore di allora e di oggi, e molti altri pischelli del neonato Pds.

Sui pullman si cantavano le canzoni popolari del socialismo, con continue diatribe fra i ragazzi se urlare la parola “socialismo” oppure “comunismo” all’interno della famosa strofa di “Bandiera rossa”. Io con me portai una bandiera tricolore, invece, per le strade di Palermo. Credo fosse l’unica bandiera italiana in un mare, un mare di bandiere rosse.

Se non ricordo male, passammo per posti tipo Ballarò o forse la Vucciria, dove quella bandiera tricolore, così grande rispetto ai calzoncini corti che ero, e così poco vissuta come propria da parte di tanti palermitani, venne vista male, quasi come una sorta di occupazione. Io ero molto ingenuo, ma quel gesto lo ricordo oggi con una certa fierezza.

…e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.

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