C’è stato un momento in cui il comandante ha creduto che potevano ancora farcela: lui, sua moglie, gli uomini e le donne dell’equipaggio, i passeggeri. Trasfertisti, sardi di rientro, coppie di sposini in vacanza, genitori e bambini. E’ stato il momento in cui il capitano del Moby Prince, Ugo Chessa, ha deciso che l’unico modo per salvarsi era riunire quante più persone possibili nel Salone DeLuxe del suo traghetto. La nave da poco aveva infilzato la prua in una delle cisterne della Agip Abruzzo, una petroliera ancorata a poche miglia al largo di Livorno. Sul prima – le cause e la dinamica di un incidente unico per la sua gravità – servono ancora indagini 26 anni dopo, questa volta condotte da una commissione d’inchiesta del Senato che lavora da quasi due anni tra documenti, audizioni, nuove perizie. Ma sul dopo – cosa accadde a bordo, come si comportarono i soccorsi – le risposte si sono fatte più robuste.

Accade perché via via è ridotta al lumicino una tesi che ha fatto da perno a tutte le inchieste giudiziarie sul disastro navale del 10 aprile 1991: la tesi, cioè, che a bordo del Moby Prince morirono tutti in poco tempo, entro mezz’ora. Una ricostruzione che ha permesso a tutta la macchina dei soccorsi di rimanere fuori dai processi celebrati negli anni Novanta e finiti senza colpevoli. Ma “non è assolutamente così: le morti sono avvenute in un lasso di tempo differenziato” spiega uno dei senatori della commissione d’inchiesta, Luciano Uras. Per i familiari delle 140 vittime la storia del “tutti morti quasi subito” è stata la più dolorosa delle verità scritte (male) dalla giustizia italiana su questo disastro, il più grave della storia della marineria civile in tempo di pace.

“A bordo sopravvivenza oltre la mezz’ora”, cade l’ultimo falso
Ora cade anche l’ultimo falso, dunque: a bordo del Moby Prince rimasero in vita più di mezz’ora, forse molto più di mezz’ora. Tra mille cautele e in attesa di una nuova perizia medico-legale affidata ai professori Aristide Norelli e Elena Mazzeo, lo sottolinea anche la prima relazione della commissione: “La sopravvivenza limitata in circa 30 minuti – si legge – non spiegherebbe alcuni fatti incontestabili“. Il primo: la concentrazione delle vittime dentro e vicino il Salone DeLuxe (qui furono trovati 91 corpi su 140 e su molti è stato trovato anche il giubbotto salvagente). Il secondo: un filmato da un elicottero che riprende il corpo integro di Antonio Rodi, un cameriere di bordo, e pochi minuti dopo il cadavere ormai carbonizzato, come se si trattasse di un superstite uscito da una parte sana della nave che poi però è stato sopraffatto dal calore delle lamiere. Il terzo: il salvataggio del mozzo, Alessio Bertrand, unico superstite. Il quarto: la foto – che ilfatto.it pubblicò già nel gennaio 2014 – che dimostra impronte e manate sui furgoni ricoperti di fuliggine, nel garage del traghetto. Il quinto, infine: altre immagini – nella fotogallery in alto – che la commissione ha raccolto mostrano parti della nave rimaste integre, mai sfiorate dalle fiamme e in certi casi neanche dal fumo, tanto da non far partire nemmeno lo sprinkler, cioè la “doccetta” antincendio che si rompe solo quando si raggiungono i 70 gradi. In un caso si vede un wc di plastica annerito ma intatto, in un altro una cabina di bordo senza segni di affumicatura, in un terzo caso cartoni con pacchetti di fazzoletti rimasti immacolati in un ripostiglio del bar di prua, a pochi metri dal Salone DeLuxe. Ecco che si spiega perché dalla plancia del Moby Prince partì l’ordine di raccogliere in quella sala quante più persone: c’era tempo, c’era ancora tempo per sperare, c’era tempo per salvarsi, c’era tempo di aspettare che qualcuno arrivasse dal porto, d’altra parte “Livorno ci vede, ci vede con gli occhi” come disse pure il capitano della petroliera Renato Superina mentre chiedeva i soccorsi.

I soccorsi, dice la storia, non arrivarono mai. Le imbarcazioni che si precipitarono – mal coordinate, al limite dell’anarchia – si concentrarono quasi solo della petroliera. E prima ancora, su tutto, la storia più incredibile: nessuno quella sera cercò il Moby Prince. Quel traghetto era appena uscito dall’ultima diga del porto per mettere la prua verso Olbia: non c’era da indagare molto per capire quale fosse la nave investitrice. 

Deve aver fatto questo ragionamento anche il comandante Chessa che con gli altri ufficiali in plancia Giuseppe Sciacca e Lido Giampedroni ordinò di riparare nel Salone DeLuxe. Come l’intera nave, anche quello stanzone si trasformò: prima, un luogo dove si parlava a mezza voce, si guardava distrattamente la tv, ci si preparava con qualche sacco a pelo alla notte di traversata; dopo, l’ultimo rifugio dall’inferno per come lo si può immaginare: fuori dagli oblò le fiamme divoravano tutto nel buio della notte e del fumo, dopo che il greggio uscito dalla cisterna della petroliera si era riversato a tonnellate sulla figura più minuta della Moby.

Nelle sentenze, sottolinea il presidente della commissione Silvio Lai, “si punta sull’errore umano a bordo della Moby, ma l’ipotesi è esattamente l’opposto: di fronte all’evento catastrofico il personale ha mantenuto il sangue freddo e ha atteso i soccorsi, non sappiamo per quanto tempo, ma di sicuro oltre i trenta minuti“. Il comandante scelse il salone DeLuxe come ultima carta per tenere al sicuro il suo equipaggio e i passeggeri in un’area che poteva resistere di più al calore, al fumo, al fuoco: era una zona coibentata, c’erano porte tagliafuoco. “La Moby Prince – ha spiegato al Senato il capitano di fregata Gregorio De Falco, ascoltato dalla commissione come esperto di coordinamento di soccorsi – era costruita in modo di resistere anche a incendi violenti, in attesa dei soccorsi”.

Ma quando finalmente il traghetto comparve davanti agli occhi di alcuni ormeggiatori, non cambiò niente. La decisione finale infatti fu quella di non salire a bordo, di non tentare niente per cambiare in nessun modo il corso di quella tragedia che si consumava davanti agli “occhi di Livorno”. L’ammiraglio Sergio Albanese – che quella sera era a capo dei soccorsi – rimase in silenzio per le svariate ore in cui rimase in mare, a bordo di una motovedetta: non disse nulla, mai. Risuona ancora la sua spiegazione: “Stavo in silenzio perché ero d’accordo con il modo in cui si stava operando”. In commissione al Senato gli è stato chiesto di nuovo come fu presa la decisione di non fare niente, di non provare almeno a salire sul traghetto. “Il fatto che fossero tutti morti era una deduzione logica – ha risposto – Nelle tre ore in cui i mezzi erano stati attorno al traghetto non si era buttato a mare nessuno”. E quindi “com’era possibile trovare una via di accesso per andare dentro a prendere i passeggeri visto che non c’era una via di fuga dall’interno?”. Una domanda retorica, ma vuota di significato. Uno slogan, lo ha definito De Falco: “A bordo c’erano persone in pantaloncini, magliette e ciabatte, mentre i soccorritori avevano tute antincendio, calzature adatte, respiratori”. Ma non serve andare molto lontano. Qualcuno che è uscito vivo dall’incendio del Moby Prince, infatti, c’è: l’unico superstite, il mozzo Alessio Bertrand. Dallo scontro tra il traghetto e la petroliera era passata un’ora e mezzo.

 

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