L’inizio è la creazione: dal nulla della buia sala del Teatro dell’Opera di Firenze si spandono lunghi suoni di sintetizzatore. Non si tratta però della creazione a cui siamo abituati a pensare, non quella per secoli ufficialmente narrata nella Genesi. Nell’Alchemaya di Max Gazzè un’altra creazione prende vita insieme alla profonda, cadenzata, espressiva voce di Ricky Tognazzi che, su quei lunghi e misteriosi suoni, recita un passo tratto dalle antiche tavole sumere, quelle risultanti dalle traduzioni dello scrittore Zecharia Sitchin. Si narrano così vicende pre-adamitiche, precedenti cioè la plurimillenaria esperienza del genere umano sulla Terra e riguardanti gli Anunnaki, la popolazione aliena che nella narrazione sumera avrebbe colonizzato il suolo terrestre, nominandolo Eden, e creato l’Adam, il primo prototipo di essere umano.

Ecco dunque giungere Gazzè per cantare insieme alla Bohemian Symphony Orchestra di Praga che, impegnata a sostenerlo con ampi temi dal sapore eroico e fatalista, viene egregiamente diretta dal Maestro Clemente Ferrari. Torna nuovamente Tognazzi a narrare i fatti adamitici, storie ancora sconosciute ai più, ma che oggi trovano il loro massimo divulgatore italiano in Mauro Biglino. Le vicende sumere e bibliche sono, secondo questo tipo di narrazione e questo genere di studi, le medesime: cambiano solo i nomi, laddove i sumeri Anunnaki divengono, nell’Antico Testamento biblico, i terribili e temibili Elohim. Così prosegue tutto il primo atto, tra un canto di Gazzè e un racconto di Tognazzi, in una perfetta alchimia già ampiamente annunciata dallo stesso titolo dell’opera.

È forse, dell’intero primo atto, il quarto brano cantato da Gazzè, Vuota dentro, quello decisamente più convincente: una marcia tenebrosa che conduce il pubblico nelle viscere della terra. Gazzè, per l’occasione, applica alla propria voce un vocoder tanto azzeccato da restituire la gravità e la profondità di questa inquietante discesa che prende avvio da misteriosi buchi nel suolo del lontano Brasile: “Da buchi, ho scoperto, in Brasile si scende per scale sbattuti dal vento…il peso decresce di un quarto arrivando alle viscere di un altro mondo”. La voce di Tognazzi è perfetta, profonda, rispettosa delle giuste e dovute pause, magnetica: il racconto, che nelle sue varie riprese attraversa i millenni, è chiaro, accessibile, diretto, e l’attore tocca l’apice della performance comunicativa nel biblico Ezechiele 1:1-28.

Alchemaya è così, dal punto di vista comunicativo e divulgativo, perfetta nel suo ruolo: a fine primo atto viene spontaneo dire: “Ci voleva, se ne sentiva il bisogno”. Di cosa? Di entrare in così semplice e immediato contatto con narrazioni e storie sconosciute ai più e spesso di non facile approccio.

Il secondo e ultimo atto dell’opera cambia invece radicalmente registro, e dalle narrazioni esoteriche ci si sposta sui pezzi più famosi dell’intero repertorio del cantautore romano, adeguatamente riscritti per l’orchestra dal Maestro Ferrari. Un’orchestra che, nel gioco delle parti di Alchemaya, opera definita da Gazzè “sintonica” per l’alchemica fusione dei timbri orchestrali con quelli elettronici, fagocita con la propria presenza e massa sonora qualsiasi velleità sintetica: a parte infatti alcuni punti, nondimeno significativi, in cui i synth giocano un ruolo decisivo, tutto il primo e il secondo atto sono immolati sull’altare delle melodie e degli arrangiamenti che il Maestro Ferrari ha saputo a ogni modo ben cucire intorno alla voce di Gazzè.

Il rischio di fondo è uno, e cioè che il tutto risulti un po’ troppo votato alla musica per film: le giravolte orchestrali disegnano paesaggi e orizzonti forse eccessivamente cinematografici (sembra a tratti di scorgere il John Williams di Star Wars o di E.T.), con una conseguente mancanza di totale adesione alle melodie vocali del cantautore romano, la cui voce, a tratti, sembra non essere propriamente adatta a una tale massa sonora.

A ogni modo, va benissimo così: ogni rivisitazione deve saper offrire nuove prospettive, nuove visioni, e questa inedita proposta del secondo atto di Alchemaya non è da meno. Insieme poi al repertorio “classico” Gazzè porta al suo pubblico, nel secondo atto di Alchemaya, ben due dei nuovi brani scritti di straforo assieme al fratello Francesco durante la stesura dell’opera: chissà se, quando l’opera verrà pubblicata in disco doppio, gli inediti verranno incisi nella versione, a prevalenza orchestrale, ascoltata ieri sera al Teatro dell’Opera di Firenze: chi vivrà, ascolterà.

Alchemaya, nel frattempo, vince la sua sfida col pubblico e la standing ovation finale replica quella già incassata al Teatro dell’Opera di Roma: tutti sembrano essere contenti, soddisfatti, persino il bimbo di cinque mesi che, in braccio alla mamma, dopo ampia e felice poppata, l’opera, con tanto di cuffie insonorizzate, se l’e dormita tutta, da cima a fondo.

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