“Ero in ospedale e ho sentito due botti lontani, poi uno forte e mi sono ritrovato sotto le macerie”. Omar Najdat, giornalista siriano, continua a tossire mentre risponde al telefono da un lettino in un ospedale improvvisato a Idlib. “Ero andato a Khan Sheikhoun dopo l’attacco per documentare la situazione. Sono andato nell’ospedale cittadino e un medico stava salvando due bambini intossicati dal gas contenuto nella prima bomba, sganciata da un aereo siriano. Gli abitanti della città pensavano che l’attacco fosse finito “ma poi c’è stato un bombardamento. Un primo missile – racconta Omar – cade vicino all’ospedale, poi un secondo. Il terzo centra la sede della protezione civile di fianco all’ospedale e l’onda d’urto prende in pieno la struttura sanitaria”.

Liberatosi dalle macerie, Omar trova una macchina e la mette in moto, caricando altri due feriti. “Ho guidato fino al primo ospedale per essere curato. Qui non ci sono medicine: curano le intossicazioni da gas con l’acqua, facendoti lavare il viso e spogliandoti dei vestiti. Non abbiamo neanche le mascherine anti gas”, ricorda il giornalista.

La situazione sanitaria in tutta la regione di Idlib, nel nord della Siria, e sotto il controllo dell’opposizione, è estremamente complicata. “Quando sono entrato in ospedale – spiega il dottor Fares al Jundi che lavora a Idlib – ho trovato i feriti per terra: erano tutti stesi sul pavimento mentre li lavavano con l’acqua. Abbiamo cortisone, ossigeno, garze e qualche medicinale di base: per il resto nulla. Le strutture mediche in Siria continuano a essere colpite e i medici a morire . “Il mio collega Ali Darwish – ricorda al Jundi – è stato ucciso da un raid mentre era in un ospedale, in un paesino a 10 chilometri di distanza da Khan Sheikhoun, mentre era in sala operatoria il 25 marzo scorso”. Il medico sottolinea anche che in tutta la regione ci sono ancora 1500 medici e operatori sanitari che si occupano, in condizioni critiche, della cura di diversi milioni di persone. “Al momento – spiega Al Jundi – ci sono 300 feriti e una sessantina di morti. Ma il bilancio è provvisorio”.

Il giornalista Qusei al Hussein dopo la notizia dell’attacco – avvenuto circa alle 7 del mattino, ora locale –  è saltato su una ambulanza diretta verso la località colpita. “ Alcune ambulanze hanno portato i feriti in strutture ospedaliere della regione. Trenta feriti invece sono stati caricati in direzione della Turchia. Arrivati al confine hanno scoperto che Ankara lo aveva chiuso. Solo dopo quattro ore è stato aperto ma alcuni dei feriti sono morti nelle ambulanze”.

Sul perchè il governo siriano abbia compiuto questo raid letale sulla città di Khan Sheikhoun al Hussein non ha dubbi. “L’opposizione armata negli ultimi quattro giorni ha portato avanti una offensiva a Hama, conquistando ampi territori e mettendo pressione a Damasco, così il governo siriano ha colpito le retrovie per far rallentare l’avanzata”. Il tutto avviene mentre l’Unione Europea ha pubblicato la nuova “Strategia per la Siria” – sottoscritta dai ministri degli esteri dei paesi della comunità – divisa in sei punti, in cui si sottolinea la volontà di “promuove il riconoscimento della responsabilità per crimini di guerra”. Per Qusei “il raid è un messaggio di Assad alla comunità internazionale: posso fare quello che voglio, tanto ho alle spalle Cina e Russia”. Per la strada, raccontano tutti gli intervistati, “la gente ha paura. Si chiede quale sarà il destino di Idlib”. Nel corso degli ultimi mesi, il governo di Damasco ha stretto accordi con gruppi di miliziani, che vivevano assediati dalle truppe lealiste in diverse località, per farli sfollare nella regione di Idlib. “Ma qui ci sono sfollati da diverse località della Siria. Perfino qualche profugo da Mosul”. Dal suo letto di ospedale, Omar Najdat ride e tossisce quando gli chiediamo se ci sono osservatori internazionali o giornalisti stranieri. “Qui non c’è nessuno. E non verrà nessuno”.

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