Per essere il capo di uno Stato dove la libertà di stampa è assai limitata, Bashar Al Assad è molto disponibile con i giornalisti. Visto che la Siria non ha più relazioni diplomatiche – le ambasciate aperte, come quella della Repubblica Ceca, sono l’eccezione – si spende molto con i media internazionali, convinto che il racconto della crisi siriana sia deformato dagli interessi nazionali. Una campagna al limite del velleitario, visto che il presidente vorrebbe contrastare la lettura della guerra offerta dalla Cnn e dalle televisioni degli Stati del Golfo, come Al Jazeera, che lui considera tra gli sponsor di Al Quaeda e Isis. Entrare in Siria è parecchio complicato. Senza relazioni diplomatiche, avere il visto è un’impresa. Poi Donald Trump ha poi complicato le cose: con il suo tentativo di Muslim ban, presentarsi negli Usa con un passaporto timbrato in Siria è il modo migliore per allarmare i già sospettosi funzionari dell’immigrazione (ci sono dei trucchi, per aggirare il problema: usare un duplicato del passaporto o farsi mettere il timbro su un foglio a parte, ma la burocrazia siriana può produrre pasticci di una creatività sorprendente).

Io sono arrivato a Damasco grazie a una delegazione di Europarlamentari: sei deputati che, a titolo personale e senza un incarico ufficiale del Parlamento, hanno voluto farsi un’idea sul campo della più grave crisi geopolitica in corso e rompere quell’isolamento che l’Ue ha scelto, assieme alle sanzioni, come linea politica senza compromessi verso il regime di Assad in attesa di una sua (al momento remota) caduta. Prima tappa Libano, poi autobus fino al confine, un aereo per Aleppo e poi un altro verso Damasco. Tra i promotori ci sono due italiani: Stefano Maullu, di Forza Italia e Fabio Massimo Castaldo dei Cinque Stelle.

Assad aveva dato la sua disponibilità a incontrare i giornalisti che accompagnavano la delegazione, a margine dell’incontro politico con gli eurodeputati. I dettagli vanno concordati con la sua portavoce, in un complesso di gusto più sovietico che orientale completamente deserto (era sabato, il secondo giorno del weekend musulmano): il Palazzo del popolo. Le regole di ingaggio sono precise: due domande per giornalista, vietato registrare o anche prendere appunti. Nel gergo dell’ufficio lo chiamano “statement”, dichiarazione, perché avverrà in piedi. L’intervista è solo quella posata, con un unico giornalista, e richiede una preparazione (e una prenotazione) più lunga. Davanti al solito té o caffé – come in molti Paesi arabi anche in Siria bisogna rassegnarsi a berne troppo – inizia la trattativa: davvero solo due domande? Non si può fare qualcosa di più? Squilla un telefono e qualcuno parla per un istante. La portavoce riaggancia: “Mi hanno appena detto che ognuno avrà una sola domanda, non due”. Fine della discussione. E chissà e dall’altra parte del filo c’era davvero qualcuno o si tratta di un collaudato espediente come quello che usa papa Pio XIII nella fiction di Paolo Sorrentino per mettere fine agli appuntamenti troppo lunghi.

La lista delle istruzioni e dei paletti è lunga: gli operatori televisivi non possono partecipare. Tutte le riprese, la regia, il montaggio e le foto saranno a cura della struttura di comunicazione del presidente. Non stupisce questa attenzione all’immagine visto che la leadership di Assad si fonda, dal punto di vista estetico, sulla ripetizione di un canone molto preciso, con impercettibili variazioni tipo il colore della cravatta. I suoi ritratti sono in ogni luogo pubblico, privato, negli alberghi, in strada, sui manifesti, nei soprammobili. Con sfondo neutro, con il cielo azzurro, con la bandiera siriana, senza bandiera. C’è una seconda ragione: la portavoce di Assad si informa sull’orario preciso della messa in onda in Italia dei servizi video perché, quasi in contemporanea, verranno trasmessi anche dalla televisione siriana. Non tanto come forma di monitoraggio popolare, ma per dimostrare ai sostenitori del regime (e ce ne sono tanti) che nonostante l’isolamento internazionale Assad continua a intervenire sui media occidentali e dire la sua.

La versione scritta dell’intervista, anzi dello “statement”, è altrettanto controllata: davanti a “sua eccellenza” non si portano taccuini o penne, ci sarà un apposito registratore governativo. In tempi fulminei, uno zelante redattore dell’ufficio comunicazione fornirà la trascrizione (in inglese, che il presidente conosce da quando studiava a Londra per diventare oftalmologo). Dentro il palazzo presidenziale è vietato portare i cellulari che la sicurezza ci invita a lasciare in albergo. Ora che la posizione è sempre tracciata via Gps, possono essere pericolosi. E a Damasco è meglio essere prudenti: mentre andavamo al Palazzo del Popolo, il giorno prima dell’intervista, sono esplose due bombe uccidendo oltre 40 persone. Assad si trattiene oltre un’ora con i deputati europei. Noi giornalisti aspettiamo in una sala accanto, riflettendo sulle domande e sugli implacabili postumi di una zuppa di ceci consumata nell’unico ristorante all’interno della zona protetta dai blocchi di cemento e dalla security che garantivano una relativa tranquillità all’hotel.

Poi arriva il momento dell’intervista: il presidente si mette al centro della sala, dove la luce è migliore, tre film maker riprendono, con campi e contro campi, uno scatta le foto. Assad parla parecchio (qui il testo completo dell’intervista pubblicata sul Fatto). E’ stato tutto definito, studiato, ragionato. Tranne una cosa: le domande. L’unico punto su cui lo staff del presidente non ha chiesto garanzie è su cosa avremmo chiesto. Può sembrare un dettaglio, ma con molti leader occidentali sarebbe successo l’opposto, attenzione minima ai dettagli e massima al contenuto.

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