È certo che al referendum sulla Brexit nessuno abbia votato per impoverirsi. Ma la popolazione britannica, a otto mesi dalla consultazione, sta iniziando a fare i conti con il proprio portafoglio. La sterlina oggi vale il 18% in meno rispetto al dollaro e il 12% rispetto all’euro e per George Saravelos, capo della divisione Forex di Deutsche Bank, potrebbe scendere a quota 1,05 contro il dollaro (-16% dai livelli attuali) a causa della natura “incredibilmente complicata” della Brexit. L’inflazione sta tenendo banco nel Regno Unito, che tradizionalmente è un importatore: a gennaio i prezzi sono cresciuti dell’1,8%, secondo i calcoli dell’Office for National Statistics: un ulteriore aumento dopo il +1,6% di dicembre e il +1,2 del mese precedente. È l’incremento maggiore negli ultimi due anni e mezzo. La crescita dei prezzi va a braccetto, è vero, con livelli occupazionali record, ma i salari restano al palo. E così oggi il cuore dell’impero britannico, persa la sua centralità continentale, potrebbe in alcuni settori economici diventare terra di conquista.

La Camera di Commercio britannica, in un’indagine condotta su 1.500 aziende, ha rilevato che la caduta della sterlina a seguito del referendum ha portato un incremento dei costi e una riduzione dei margini. Solo un’azienda su quattro ha evidenziato un impatto positivo sulle esportazioni, la maggior parte ha invece registrato un calo. “Le aziende che importano devono fronteggiare costi maggiori e possono trovarsi bloccate in situazioni contrattuali poco flessibili alle fluttuazioni della moneta”, ha detto il direttore generale Adam Marshall. Il 68% ha aggiunto che la svalutazione aumenterà la base costi nel prossimo anno e il 54% ha dichiarato che incrementerà i prezzi di vendita. “L’inflazione sarà un fattore di preoccupazione importante nel prossimo anno. Anche se al momento i tassi non sono alti rispetto al trend storico, stanno tuttavia mettendo molta pressione sulle aziende”, ha specificato Marshall.

Per tutta risposta alcuni gruppi hanno iniziato a ritoccare all’insù i listini o ridurre le quantità vendute allo stesso prezzo. Toblerone ha aumentato lo spazio tra un triangolo e l’altro delle proprie barrette e le confezioni dei Maltesers, prodotti da Mars, hanno perso il 15% del peso. Prezzi in su invece per Nestlè, PepsiCo e Unilever su alcuni dei brand più amati dalla popolazione britannica. In particolare ha fatto rumore la querelle tra Tesco e la stessa Unilever nei riguardi della Marmite, la crema a base di estratto di lievito di birra presente in ogni dispensa del Regno. La multinazionale olandese aveva deciso di aumentare il prezzo della Marmite del 10%, e la catena di supermercati aveva risposto bandendo questo e altri prodotti Unilever. La frizione è poi rientrata, ma la Marmite ha comunque subìto un rincaro in altri supermercati: Morrisons, per esempio, ne ha alzato il prezzo del 12,5 per cento.

Ma il panorama dei rincari è molto più ampio: va dall’olio d’oliva, per lo chef Jamie Oliver diventato un bene di lusso, provocando secondo la Coldiretti una riduzione delle vendite italiane del 13%, alla birra: Heineken e Carlsberg, oltre a Molson Coors, produttore della Carling, e AB-InBev con la sua Budweiser, hanno tutte ritoccato i propri prezzi di riferimento. Gli ultimi segnali sono arrivati con la tecnologia. Microsoft, Apple e Sonos hanno annunciato aumenti fino al 25%, in risposta alla caduta della sterlina nei confronti del dollaro. Amazon Web Services ha giustificato il rialzo allo stesso modo, e anche gli utilizzatori della Creative Cloud di Adobe, che include strumenti popolari come Photoshop, hanno trovato una sorpresa nella propria posta. “Potresti essere al corrente che la fluttuazione dei tassi di cambio è stata significativa negli ultimi anni. A seguito dei cambiamenti dei tassi di cambio nella tua area, il prezzo dei prodotti e servizi Adobe sarà più alto a partire dal 6 marzo 2017”, ha scritto la casa produttrice.

La crescita dei prezzi si accompagna a una riduzione generale della disoccupazione, che al 4,8% si presenta ai minimi degli ultimi 11 anni. Secondo l’Office for National Statistics, nell’ultimo trimestre dello scorso anno oltre 31,8 milioni di britannici risultavano occupati, 303mila in più rispetto a un anno prima. Il tasso di occupazione ha toccato il livello record del 74,6%, che non si registrava da quarant’anni. Ma solo 70mila dei nuovi occupati sono cittadini britannici, mentre ben 233mila sono stranieri, che hanno portato complessivamente il proprio peso nella forza lavoro del Regno Unito a 3,48 milioni, il 10,9 per cento. Queste statistiche però non dicono ancora tutto, perché i lavoratori del Regno Unito nati all’estero, rispetto all’anno precedente, sono cresciuti complessivamente di 431mila unità per raggiungere i 5,54 milioni, mentre si sono ridotti di ben 120mila unità i nati nel Regno Unito. In più l’istituto sottolinea che la quota di lavoratori part-time impossibilitati a trovare un full-time resta ampiamente sopra la media, così come il tasso di sottoimpiegati, cioè coloro che vorrebbero lavorare di più.

Una nuova ricerca della Joseph Rowntree Foundation indica che quasi un terzo della popolazione del Regno Unito, circa 19 milioni di persone, vive con un reddito “inadeguato”. Rispetto al biennio 2008/09, lo studio mostra un incremento di ben 4 milioni di cittadini finiti al di sotto della soglia del reddito minimo. In pratica, livelli da piena occupazione ma impieghi sempre più precari e malpagati. E per il prossimo futuro non si prevedono inversioni di questo trend. Negli ultimi mesi è stata registrata una contrazione dell’incremento dei salari, cresciuti nel trimestre novembre-gennaio del 2,7%, ma in termini reali solo dell’1,4 per cento.

E se con una sterlina debole il costo del lavoro diventa più conveniente, la terra d’Albione diventa ancora più appetibile per i big player continentali e americani, pronti a sfruttare la manodopera, ultra-qualificata o ultra-flessibile, del Regno Unito. A investire nella Brexit, infatti, sono le aziende del settore tecnologico, le stesse che hanno appena annunciato il ritocco dei prezzi. Amazon ha previsto un investimento di 5mila posti di lavoro entro l’anno, Tim Cook, numero uno di Apple, ha confermato l’impegno nel Paese, Google a novembre aveva annunciato un investimento da 3mila posti di lavoro.

Stesso trend nel pharma. Novo Nordisk, gigante danese, che sfrutta la corona agganciata all’euro, ha confermato l’investimento di 115 milioni di sterline per insediare 100 scienziati nei prossimi 10 anni in un nuovo centro di ricerca a Oxford, una decisione definita “un voto di fiducia” nella Gran Bretagna post-Brexit, dopo diversi mesi di riflessione e un cambio favorevole. Tuttavia, se la ricerca verrà eseguita a Oxford, i nuovi farmaci verranno sviluppati in Danimarca, e il vice presidente Mads Thomsen ha spiegato chiaramente alla Bbc che ogni ricavo commerciale andrà alla società danese. Non è l’unico caso del settore: AstraZeneca sta completando il proprio centro di ricerca a Cambridge da 400 milioni di sterline, GlaxoSmithKline a luglio ha confermato il proprio investimento di quasi 300 milioni.

Percorso inverso, invece, per le grandi banche d’investimento, che con l’uscita dall’Unione perdono nel Regno Unito il proprio baricentro d’azione europeo. Bruegel, think tank con sede a Bruxelles, ha recentemente stimato che il 35% di tutta l’attività bancaria londinese sia da attribuire a clienti della Ue, e dunque 1,8 trilioni di euro di asset si dirigeranno verso i 27. Secondo il gruppo di ricerca 10mila posti di lavoro si trasferiranno nelle sedi europee e a questi va aggiunto un indotto di 20mila ulteriori posti tra avvocati e consulenti che seguirà lo stesso destino. Valutazioni addirittura conservative rispetto a quelle del gruppo lobbista TheCityUK, che stima la perdita di 70mila occupati, e soprattutto a quelle di Xavier Rolet, numero uno del London Stock Exchange Group, che vede la perdita di oltre 230mila lavoratori. Jamie Dimon, numero uno di JPMorgan Chase, ha dichiarato che “ci saranno più trasferimenti di quelli sperati”, mentre Hsbc, secondo il suo amministratore delegato Stuart Gulliver, vedrà emigrare a Parigi una parte del suo staff che genera complessivamente il 20% di tutti i ricavi londinesi dell’istituto bancario.

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