Buona la prima per Manuel Agnelli, giudice nella decima edizione di X Factor, anche se questa è una frase usuale e abusata, come si conviene all’attacco di un post, perché ieri sera non si è visto praticamente niente: erano audizioni e bisognava solo dire dei sì o dei no, proponendo in filigrana uno stile con cui declinare l’approccio alla propria idea di arte-canzone e alla dialettica con la sua anima mercantile.

Ciò che leggerete in questa pagina servirà per esporre gli elementi di una riflessione, che caratterizzerà questo tipo di miei scritti da qui alla finale di X Factor.

I riflettori saranno puntati su Manuel Agnelli, perché credo che la nomina a giudice del leader degli Afterhours sia un evento estremamente importante. Vorrei dire memorabile. Ci sono due legittimi approcci di fronte alla questione: rifiutare la cosa, indignandosi persino; vederci una risorsa per far passare un messaggio che possa essere utile non solo – fortuna sua – alle tasche di Agnelli, ma a un intero ecosistema pulsante in Italia. Io scelgo il secondo approccio.

Aver ingaggiato Agnelli è – nei fatti – il riconoscimento, da parte di un’azienda di prodotti altamente deperibili, della realtà che in Italia c’è anche qualcosa di autentico, a prescindere soprattutto dall’idea che gli autori volessero solo conquistare parte del pubblico, che altrimenti non avrebbe mai visto X Factor.

C’è una considerazione da fare: a grandissime linee, ci sono due modi per scrivere canzoni:

a) scrivere (cantare, arrangiare, travestirsi etc.) per vendere dischi;
b) scrivere (cantare, arrangiare, travestirsi etc.) per esprimersi in un linguaggio necessario a se stessi e all’esigenza di comunicare – quindi qualcosa che vada al di là della pura vanità o del puro gesto estetizzante –, con un codice diverso dal mondo.

Ecco, a prescindere dal fatto che a X Factor di scrittura ci sia veramente poco, la forma del primo caso si adatta alla televisione, e noi qui la chiameremo “canzone pop”.

La forma del secondo si adatta molto meno al medium, quindi la tv può solo darne notizia, divulgarne l’esistenza, così da farla arrivare a un pubblico che sia il più vasto possibile. Detto tra noi, è un nobilissimo fine. Chiameremo “canzone d’arte” questa seconda forma. Per capirci, Umberto Eco negli anni Sessanta la chiamava “canzone diversa”, e che abbia messo il suo scritto in “Apocalittici e integrati” mi sembra molto significativo.

La speranza è che Manuel Agnelli da qui al 15 dicembre riesca a far capire questa differenza, che meriti di dimostrare di rappresentarla. Leggo di sue dichiarazioni in cui parla della volontà di “abbattere i confini”; non ci credo e non ci crede nemmeno lui: aver fatto la storia della musica indipendente in Italia non esaurisce la propria energia vitale di fronte alla dipendenza da un furbo stacco di montaggio, o di un applauso a comando di uno studio televisivo. Manuel Agnelli è persona troppo intelligente per pensarlo davvero.

In questa direzione, è stata una mossa giustissima porsi come uno che odia l’ostentazione d’indipendenza. Inoltre, l’impersonificazione del “cattivo” della situazione sembra rispondere a esigenze di onestà e rigore argomentativo, più che alla necessità di avere un ruolo. Benissimo così.

Non sarà facile portare avanti un profilo qualitativo per forma e contenuti a X Factor, a meno che non si voglia vestire i panni facili e innocui di colto e istrionico maudit di Morgan. Quindi non sarà facile il compito di Manuel Agnelli.

Posto che Manuel Agnelli questa funzione voglia averla. Io lo spero. Intanto, buona la prima.

Articolo Precedente

Christophe Chassol, l’artista che orchestra ciò che vede: il suo viaggio in paesaggi sonori arriva a Milano

next
Articolo Successivo

Od Fulmine, la band genovese tra indie rock e cantautorato

next