Il loro primo tifoso sarà Ban Ki-moon. Il segretario generale delle Nazioni Unite ha promesso che per sostenerli metterà da parte la sua proverbiale neutralità. Accanto a lui saranno in tanti a buttare un occhio ai risultati degli atleti che parteciperanno alle Olimpiadi sotto la bandiera del Comitato olimpico internazionale perché rifugiati. Una vera e propria squadra, composta da dieci persone, che il 5 sfilerà assieme a tutti gli altri e gareggerà alla pari, anche se da anni vivono in fuga dal loro Paese. “Questi rifugiati non hanno casa, non hanno una squadra né una bandiera o un inno – ha spiegato il presidente del Cio Thomas Bach – Noi offriremo loro una casa nel villaggio olimpico, insieme agli altri atleti del mondo. Sarà un segnale di speranza per tutti i rifugiati del mondo e farà capire al pianeta la portata enorme delle crisi dei rifugiati”.

La storia più raccontata in queste settimane è stata quella di Yusra Mardini, diciottenne siriana rifugiatasi in Germania. Partita da Damasco con la sorella Sarah, Yusra ha dovuto nuotare per alcuni chilometri nell’Egeo perché il suo gommone rischiava di affondare nel mare in tempesta. A bordo erano in venti, ma avrebbero dovuto essere in sette. Così lei si è messa a spingerlo. Ha poi camminato a piedi superando i confini di Macedonia, Serbia, Ungheria prima di arrivare in Austria e poi a Berlino, dove oggi vive con la famiglia.

Accanto a lei dietro alla bandiera del Cio sfilerà People Misenga. Judoka, nato 23 anni fa nella Repubblica Democratica del Congo, Misenga vive da anni in una favela di Rio. Gareggerà in casa, insomma. Stesso Paese di ‘adozione’, stessa disciplina olimpica ma diversa provenienza per Yolande Bukasa. È di origine congolese e vive in Brasile dal 2013, anno in cui disputò i mondiali di judo proprio a Rio ma non fece più ritorno in patria. Rami Anis, invece, si è rifugiato in Belgio nel 2015 ma la sua fuga dalla guerra in Siria era iniziata già nel 2011, quando scappò in Turchia. Aveva 20 anni e una grande passione per il nuoto, che coronerà alle Olimpiadi tuffandosi in vasca per lottare nei 100 metri farfalla.
Gli altri sei atleti della squadra più speciale dei Giochi saranno impegnati nell’atletica leggera. Yonas Kinde percorrerà i 42 chilometri della maratona dopo essere fuggito dall’Etiopia nel 2013. Ha 36 anni e dal 2013 abita in Lussemburgo sotto protezione internazionale. James Nyang Chiengjiek, classe ’88, è originario del Sud Sudan e vive nel campo di Kukuma, in Kenya, ormai da anni. Non ha mai smesso di allenarsi e a Rio proverà a trovare un posto al sole nei 400 metri. Vive e si allena con lui anche il connazionale Yech Pur Biel, in fuga dal 2005, che sarà impegnato nella distanza doppia, gli 800 metri.

“Con l’educazione, ma anche con la corsa puoi cambiare il mondo – ha detto Yerch – Vogliamo dimostrare a chi vive nelle nostre stesse condizioni che c’è una possibilità e una speranza”. Anche Paulo Amotun Lokoro ha abbandonato il Sud Sudan per riparare a Kukuma ed è pronto a sfidare tanti mezzofondisti africani nei 1500 metri. Poi altre due donne sudanesi, Rose Nathike Lokonyen e Anjelina Nadai Lohalith. La prima correrà gli 800, mentre Anjelina è attesa dai 1.500 metri. Scenderà in pista il 13 agosto quando nella notte italiana sarà circa l’1.30. Chissà se mentre spiegherà le sue esili gambe sul tartan di Rio, i suoi genitori avranno modo di seguirla attraverso qualche vecchio televisore. Non vedono né sentono la loro figlia da quando aveva sei anni. Costretti a separarsi per cercare di salvarla dalla guerra, ora la ritrovano in gara nei giochi durante i quali, nell’antica Grecia, i conflitti dovevano cessare per forza. Mentre in Sud Sudan si combatte ancora.

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