Di Simone Vacatello, direttore editoriale di Crampi Sportivi

Antonio Conte è antipatico. Lo ammette lui stesso: ci scherza su quando le cose vanno bene, rilancia provocando quando le acque sono mosse, dicendo che è proprio perché vince che è antipatico. Ma l’idea che faccia tutto parte di una tattica mediatica per attirare su di sé l’attenzione e polarizzare la concentrazione della squadra non rende giustizia alla caratura del tecnico, anzi lo sminuisce quasi fosse una versione da notte della Taranta del primo Mourinho. Conte è antipatico/fa l’antipatico a prescindere dal fatto che la cosa funzioni, lo fa perché probabilmente se potesse andrebbe solo al campo per l’allenamento e per la partita, ed eviterebbe il balletto mediatico della sala stampa, quello in cui un antipatico dialoga con gente antipatica in un frangente in cui entrambi non rinunceranno a fare gli antipatici, né a pensare dell’altro che sia un antipatico.

Forse è proprio in questo inevitabile, almeno apparentemente, valzer di fastidi già ripetuti che si incontrano a mezzanotte il lato caratteriale dell’uomo e la sua realtà di allenatore vincente. D’altronde non si vince facendo gli antipatici ma preparando la partita meglio dell’avversario ogni volta, ed è questo il campo in cui Conte è uno dei migliori in quello che fa, è quello il suo palcoscenico ideale.

E allora è forse proprio per questo motivo che è così antipatico: ha decostruito il calcio a un livello tale, ha visto e letto l’incontro a un livello così approfondito, dettagliato e maniacale, che è come se avesse già giocato e vinto nella sua testa. Se questo fosse vero, vorrebbe dire che quando perde le staffe, quando dà in escandescenza,  è come se dicesse: “oh, mica ora mi costringerete a rivivermela da capo, col rischio che magari la perdo. Non scherziamo per piacere, so come vincerla perché l’ho già vinta”.

Questo vale anche per i casi in cui Conte non ha vinto nella sua carriera, come le volte – che gli vengono spesso, e ingiustamente, rinfacciate – in cui la corsa della sua Juventus non era altrettanto inarrestabile in Europa come in Campionato. Le spiegazioni e le attenuanti in quel caso erano e sono tante, a partire dalla somma di impegni e dalla lunga distanza che impedivano la doppia gioia finale a una squadra che in quegli anni – a differenza di adesso – era comunque meno equipaggiata rispetto alle altre grandi europee. Anche in quei casi uno come Conte raramente preparava la partita con minore attenzione ai dettagli, o con una mentalità più rilassata. Ne consegue che ogni volta che Conte va in campo sa di poter vincere, nella sua testa ha già vinto, ma sa bene cosa potrebbe accadere se la realtà non dovesse ripetere l’esito della sua simulazione mentale.

Per questo è così fissato con la vittoria, perché ogni volta si trova a rigiocare una partita che ha già vinto nella sua testa, col rischio che le cose vadano diversamente. Insomma una mistura di determinazione e sicurezza che si scontrano con frustrazione e impazienza. Da lì, probabilmente, la poca malleabilità. Questo giustificherebbe e spiegherebbe anche la poca elasticità con cui Conte ha liquidato in anticipo l’impegno con la Nazionale, lamentando troppa distanza tra un incontro e l’altro e il poco contatto con il campo durante tutto l’anno. Immaginate un uomo che prova le sensazioni sopra descritte quanto bene possa vivere un ruolo talmente più “seduto”.

È una questione di lentezza della realtà rispetto alla velocità della sua lettura. Antonio Conte è un individuo in perenne coda al bancomat dietro a utenti i quali, bene che vada, sono più lenti di lui.

Detto questo, e riportando tutto all’impegno del momento, è implicito che Conte abbia già giocato (e vinto) nella sua mente le sfide con Germania e, eventualmente, Francia.

Personalmente, il fatto che questi trionfi non siano certi, ora che credo di aver intuito cosa prova, mi fa scoprire agitato quanto lui e altrettanto impaziente.

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