Dagli anni Ottanta la “questione rom” è il terreno sul quale a Roma, con accenti esasperati in campagna elettorale, si scontrano le visioni, si definiscono le appartenenze e si costruiscono le promesse di quanti incarnano le differenti formazioni politiche. Quest’anno nella Capitale sembra si sia fatto un passo in avanti e, salvo poche eccezioni, l’argomento sul quale, senza freni inibitori, si poteva dire tutto e il contrario di tutto, è diventato per i candidati a sindaco il “tema tabù” sul quale, senza rischiare di inciampare, ciascuno ha cercato di girarci intorno senza entrare nel merito. Si è parlata di una generica necessità di “superamento dei campi” evitando di andare oltre.

Matteo Salvini e Giorgia Meloni visitano il campo rom di Via Candoni

Fa eccezione la strategia comunicativa di Matteo Salvini che, nella sua campagna elettorale a sostegno di Giorgia Meloni, ha scelto le baraccopoli abitate da cittadini rom da usare come sfondo a comizi improvvisati da rimbalzare sui social. E’ stato nella baraccopoli di Salviati, ha documentato il quotidiano delle famiglie concentrate nel centro di raccolta di via Salaria, si è preso la sua porzione di fischi all’ingresso del cosiddetto “campo nomadi” di via Candoni.

La baraccopoli progettata e gestita dalle istituzioni è sempre stata lo spazio estraneo al normale ordinamento giuridico marcando l’esistenza di una cittadinanza difettosa o assente; il baraccato romano – quello di oggi come quello del dopo-guerra – incarna qualcosa che non ha funzionato all’interno di una esistenza dove l’emergenza si è cronicizzata, la transitorietà si è dilatata nel tempo, l’eccezione è diventata la regola. Nella baraccopoli che, come una ferita rappresenta lo strappo della periferia dimenticata, è stata sempre confinata la “gente in eccesso”, la stessa definita negli anni Cinquanta da Hannah Arendt la “schiuma della terra”, davanti alla quale, sfacciatamente e senza pudore, il leader legista fa scorrere ossessivamente il suo tablet.

Lo spazio abitato dai rom romani in emergenza abitativa non è più soltanto il luogo del controllo sociale, della rieducazione, del confinamento su base etnica. Esso riscopre una funzione nuova e inesplorata, quella di territorializzare l’antigitanismo funzionale alle campagne politiche, dove tutte le comparse sono categorizzate come stranieri, parassiti, ladri, stupratori, diversi… Il tutto si acuisce quando l’occhio del tablet leghista si sofferma su bambini scalzi, che saltellano sulle pozzanghere davanti le loro abitazioni in orario scolastico, che giocano sotto la pioggia, che si ciondolano nella noia di giornate senza gioco.

Eravamo abituati a conoscere il razzismo come un fenomeno interculturale, intergenerazione, trasnazionale, trasversale ai partiti e alle ideologie. Conoscevamo quello dei razzisti che gettano vigliaccamente bottiglie incendiarie per poi fuggire; quello dei populisti che pompano veleno nella mente dei cittadini; il razzismo dei democratici che dietro l’amore per l’umanità nasconde l’odio ipocrita verso alcune categorie di persone.

Con Salvini si inaugura il razzismo mediatico che penetra senza bussare nelle esistenze disperate di bambini baraccati poveri, impregnati della miseria ereditata dal genitori. E’ la pornografia della sofferenza urbana utilizzata dal leader leghista per drenare voti e consenso.

Mi ricorda la stessa spettacolarizzazione del dolore costruita con estetica televisiva e tecnica pubblicitaria da alcune grandi organizzazioni del sociale che, attraverso i video dello “scheletrino africano” costruiscono le loro campagne di raccolta fondi. La tecnica e il fine sono gli stessi ma lo sguardo va oltre. Oltrepassa le baraccopoli romane per superare il Mediterraneo dove bambini dagli occhi colpiti da cataratte o affetti dal labbro leporino, dallo stomaco gonfio, con sguardi assenti e mosche sulle palpebre sono i protagonisti di spot di raccolta fondi.

Il disagio dei bambini rom sposta voti; le malattie dei bambini africani movimentano denari per il sostegno dell’infanzia, fanno marketing. Sono facce della stessa medaglia. Lo si fa senza pudore, sfacciatamente, consapevolmente, poggiandosi su una povertà infantile che invece di mettere sul palcoscenico mediatico, dovremo pensare a risolvere. L’era delle immagini è quella dove non si butta nulla, tutto si utilizza, anche il dolore dei bambini. Quei fotogrammi uccidono: prima di tutto la dignità dei bambini e delle loro mamme, poi quella della nostra intelligenza, irrimediabilmente anestetizzata.

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