Leggendo La scuola cattolica, il libro di Edoardo Albinati. Ero talmente assorbita nella lettura di questo libro da attraversare i diversi registri narrativi, da quello romanzesco a quella antropologico, da quello freddo e tecnico che narrava una vicenda criminale a quello intimo che parlava di sé, dell’amicizia e dell’amore, senza quasi accorgermene. Lo seguivo nella sua analisi sulle conseguenze dell’educazione cattolica tra i ragazzi che frequentavano l’Istituto romano del San Leone Magno, la scuola dei preti dove Albinati ha trascorso infanzia e giovinezza. La scuola da cui uscirono anche gli assassini del delitto del Circeo, delitto sul quale lo scrittore si interroga, analizzandone le possibili premesse e portandone alla luce le conseguenze nella storia del nostro paese. Alla ferocia di quegli assassini faceva da controcanto il talento di altri allievi, la tenace intelligenza del professor Cosmo, la miracolosa ipocrisia dell’insegnante di religione.

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Accompagnavo i suoi genitori nelle loro passeggiate serali per il Quartiere Trieste, grande protagonista del libro. Poi ritrovavo il volto del compagno più caro, Arbus, che avevo lasciato qualche capitolo prima intento a leggere voracemente tutto quello che gli veniva a tiro. Mi inoltravo quindi  nel racconto degli anni del femminismo e di cosa avessero significato per quella ristretta cerchia del quartiere Trieste le prime rivendicazioni femminili di autonomia e come, proprio queste, fossero una delle molle alla crudeltà con cui Izzo e compagni si erano avventati sulle ragazze nella sinistra villa del Circeo. Poi lo scrittore mi riportava ai film di quegli anni, in certi casi forieri di una rabbia sorda che aspettava solo di sfogarsi e mentre stavo per lasciare la lettura e riprendere fiato per il disgusto di leggere i rigurgiti razzisti, deliranti e l’omofobia dei fascisti di allora, ecco che mi imbattevo nel bellissimo racconto della gita della famiglia Rummo in montagna, il sole, le vette, il lago e mi incantavo per il giovane Gioacchino che per tutta la vita farà i conti con quel giorno funesto. Quindi si apriva una digressione (“lettore, se vuoi puoi saltare questo capitolo”) su cosa fosse allora la famiglia borghese, raccontata senza mai ricorrere a cliché o luoghi comuni, ma sempre indagata, come dire, dall’interno, dall’occhio lucidissimo e implacabile ma mai arrogante dello scrittore.

Le storie di Arbus, degli amici più cari e di quelli più misteriosi e delle ragazze hanno creato personaggi che non dimentico. Come Leda, delicata e potentissima creatura.

Ho scritto che questo andare e venire tra i registri narrativi assumeva nella lettura una magnifica naturalezza; ora che vorrei raccontare e rendere onore alle 1300 pagine di questo bellissimo libro, questa complessità mi appare ostacolo insormontabile.

La fluidità con cui Edoardo Albinati scrive tiene incollati alla pagina; alla fine quando ogni asse, ogni mattone, ogni tegola è al posto giusto, è comunque difficile trovare le parole per descrivere questa immensa struttura. E a chi mi chiede: “Di cosa parla?”, non posso che rispondere in modo elusivo “della vita”.

Come è riuscito lo scrittore in questo immane compito? Compiendo il miracolo di aderire con feroce sincerità alla propria esistenza, ai propri vizi e alle proprie passioni, ma tenendo bene a freno l’ego che impazza in tanta letteratura italiana di oggi. Utilizzando il microscopio dello scienziato per capire i fenomeni antropologici in cui era allora immersa la sua e la nostra vita e la sapienza del poeta per descrivere gli episodi più cupi o radiosi. Finalmente un grande scrittore italiano; non posso che concordare con Francesco Piccolo che ha usato queste parole per recensire La scuola cattolica.

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