In quest’anno così denso di avvenimenti tragici, a un mese esatto dal sanguinoso attentato di Parigi, la conclusione positiva della Cop21 rappresenta un sospiro di sollievo collettivo. Sollievo evidente nei volti dei delegati, durante il lungo applauso che ha seguito l’approvazione dell’accordo, segnalata dal martelletto verde di Fabius. E nelle dichiarazioni positive praticamente unanimi degli ambientalisti; al di là dei gravi limiti e delle numerose incognite del testo, abbiamo tutti o quasi deciso di puntare sui suoi importanti aspetti positivi, per ricominciare la battaglia da subito, forti di una nuova consapevolezza pubblica e di molti nuovi alleati.

A quasi 20 anni dalla firma del protocollo di Kyoto, per la prima volta il cambiamento climatico è esplicitamente un problema di tutti: gli Stati (ricchi emergenti o poveri) i cittadini, il business, gli investitori.

Come si governano le bizze del clima? Azzerando le emissioni nette e uscendo dalla dipendenza dai combustibili fossili; spingendo efficienza energetica e rinnovabili; finanziando adeguatamente la transizione e aiutando chi già oggi soffre le conseguenze del clima “sregolato”. Dopo Parigi, questa tabella di marcia diventa “irreversibile” e si avvia un processo dinamico, che vede il coinvolgimento di una parte sempre più rilevante del business e della finanza. Il problema è capire se agiremo abbastanza in fretta e se verranno trovate le risorse per realizzarla prima che gli effetti catastrofici di un clima impazzito diventino inarrestabili. Insomma, non c’è un minuto da perdere.

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Il pianeta è oggi più “caldo” di circa un grado rispetto all’era preindustriale. Se andremo oltre i 2° siamo… fritti. La consapevolezza generale di questa realtà (e un intenso lavoro di migliaia di attivisti e lobby verdi) ha portato paesi fino ad oggi fieramente contrari a ogni impegno ad accettare di inserire nell’accordo di Parigi un obiettivo che mira a contenere il riscaldamento del pianeta a un livello “di molto inferiore ai 2°” e a “proseguire negli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°”. Un risultato in parte inatteso e che rafforza la strategia del “divestment” che mira a togliere risorse ai fossili e renderli una scelta perdente dal punto di vista economico e finanziario (ad oggi 2,6 trilioni di $ sono stati tolti dai fossili). Ma questo non è sufficiente.

Lo strumento più importante per ridurre le emissioni sono i cosiddetti Indc (Intentional Nationally Determined Contributions), cioè gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni. Il limite del sistema messo a punto a Parigi è che si basa su target nazionali volontari e assolutamente insufficienti, e che settori importanti come l’aviazione e la navigazione continuano a rimanere fuori dal calcolo. La sfida più importante del dopo-Parigi e la ragione per la quale molti hanno parlato soltanto di un inizio di un processo che sarà ancora lungo, è esattamente la distanza fra obiettivi, intenzioni e strumenti e l’assenza di strumenti legali vincolanti. Questi sono sostituiti, almeno per ora, da un complesso sistema di controllo, che si spera permetterà di rivedere al rialzo i target di riduzione ed assorbire il gap attuale. Il punto che rimane aperto è quando e se questa revisione sarà fatta davvero.

E l’Europa?

Gli impegni presi dall’Unione europea a Parigi e in particolare la spinta verso l’obiettivo degli 1,5° richiedono un cambio di rotta rispetto al modestissimo accordo sul Pacchetto Energia 2030, che prevede obiettivi di riduzione delle emissioni e di promozione di efficienza energetica e rinnovabili assolutamente insufficienti ad assicurare il rispetto della traiettoria dei 2°, figuriamoci per quella di 1,5°! L’occasione di cambiare strada c’è: nel 2016/2017 la Commissione proporrà una serie importante di nuove norme su clima ed energia. Se l’Ue abbandonerà le sue ambiguità “fossili”, vorrà dire che Parigi si è fatto sul serio.

Anche l’Italia, che ha giocato un ruolo di tranquilla retroguardia a Parigi, dovrà davvero cambiare strategia e politica energetica: niente trivelle, inceneritori, rigassificatori, gasdotti; nuove regole e finanziamenti per rinnovabili ed efficienza energetica. Non partiamo da zero. È di pochi giorni fa la notizia che il governo ha deciso di abbandonare le trivelle entro le 12 miglia marine, per evitare il referendum promosso dalle regioni. Questo è un primo risultato raggiunto dalla mobilitazione regioni, ambientalisti e associazioni; ma ne devono seguire molti altri, in particolare su rinnovabili ed efficienza, perché l’Italia si rimetta in regola con i suoi impegni climatici.

A Parigi si è scritta una pagina incoraggiante, ma per certi versi ancora da scrivere. Starà a noi tutti, politici, attivisti, operatori economici, amministratori locali, portatori e portatrici di tutte le sfumature del “verde” evitare di ridurlo ad un momento di mera auto-illusione collettiva.

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