Place de la République, Parigi

Ci sono urla assordanti nell’aria. Chiudiamo le orecchie e pensiamo alle nostre piccole certezze. Ai piccoli spazi che ci appartengono, alle nostre piccole conquiste; piccoli arrivismi, piccoli privilegi. Tutto piccolo. Tutto a portata di mano. Fino a quando qualcosa si incaglia proprio qui vicino e, nonostante le resistenze mentali, ci obbliga ad alzare lo sguardo sul mondo. Solo così ci accorgiamo all’improvviso che le nostre piccole vite, a volte misere e fittizie, sono strettamente legate a ciò che accade intorno a noi. Se restano lontane, è troppo faticoso prestargli attenzione. “Cazzi loro!”, in fondo. Abbiamo troppe cose da fare. Troppe cose “importanti” a cui pensare. Troppo poco tempo. Non c’è spazio. Non c’è la percezione del macro. Vogliamo pensare in piccolo.

E poi, “Attentati a Parigi”, “Parigi sotto attacco”, “Attacchi terroristici a Parigi”. In Europa cazzo! E l’Europa siamo noi, o almeno così dicono! Comunque è qui accanto, fisicamente a due passi. E tutti, all’improvviso, diventano magicamente sociologi, storici della cultura islamica, politici esperti di strategie per fermare l’immigrazione di quei “Bastardi islamici” che Maurizio Belpietro mette a caratteri cubitali sulla prima pagina di Libero del 14 novembre scorso. Tutti con i faccioni sul profilo Facebook dai colori francesi, tutti a piangere, occhi e lacrime, candele accese, pensierini strazianti della buona notte. E poi le massime scontate e prevedibili, quelle che strumentalizzano. Unico fine: giustificare e incalzare sempre e comunque quel razzismo spicciolo e ignorante che non essendo razionale ma innato, si attacca a ogni questione possa essergli di sostegno. Per poter dire: “Allora ho sempre avuto ragione io”. “Bastardi islamici”. Con quel ghigno soddisfatto sulla faccia, che quasi per un attimo e inconsciamente, non aspettava altro che un disastro di quella portata per dare manforte alle proprie opinioni tacciate spesso di razzismo, e invece adesso più facili da masticare.

Ecco cosa non mi piace di tutta questa sensibilità improvvisa; provocatoria e acida come sono, dico solo che la retorica non mi piace. E che dietro alla cronaca naturale, più o meno corretta a seconda di chi scrive e delle sue intenzioni, e dietro alla gravità indiscussa e alla condanna di ciò che è accaduto (a cui mi associo senza ma e senza se), ci sia un contorno e un sottofondo di massa, che sbuca fuori solo quando gli è comodo, quando non può farne a meno, quando è troppo vicino per fare quelli del “chissenefrega”, quando la paura che accada a noi è troppo forte per restare indifferenti. Quando diventa importante, solo perché “potrebbe accadere anche qui”, mentre se è distante, qualunque cosa sia… può continuare a succedere.

Fra qualche giorno, le immagini del profilo torneranno a essere lo specchio della vanità di ciascuno, il populino riprenderà a twittare di Belen e di ciò che accade durante il talent di turno, e leggeremo di nuovo quelle cavolate private che per un po’ qualcuno aveva evitato di diffondere, perché forse “non stava bene”. Della serie: evviva la frivolezza sempre, tranne quando agli altri vuoi far vedere che hai un cervello e non ci riesci comunque. Insomma, da qualcuno giuro avrei preferito la frivolezza. Odio l’interesse al mondo a intermittenza. Odio quella mancanza di dignità e consapevolezza sociale che dovrebbe coinvolgere emotivamente e non solo, spingendoci a guardare lontano. A informarci. A prendere parte. A scegliere. A crearci un’opinione personale. Odio quella mancanza di dignità che dovrebbe farci sentire uomini tra gli uomini, curiosi e contemporanei. E permetterci di guardare oltre i nostri confini, ragionando sulle dinamiche politiche, gli interessi mondiali, le logiche di mercato. Oltre i genocidi che ancora avvengono, (e noi sappiamo commuoverci solo e sempre per l’olocausto, perché lo abbiamo studiato a scuola e ci hanno fatto leggere Se questo è un uomo). Oltre ciò che accade in casa nostra, spinti dalla partecipazione (che è “libertà”, Gaber docet) e non solo perché ci muove la paura. Odio l’interessamento superficiale che si illumina solo quando fa più rumore. Come quando a Natale tutti sono più buoni (non mi ci metto dentro, a questa frase, perché proprio a Natale divento meno accondiscendente).

Non volevo scrivere un articolo su ciò che è accaduto a Parigi. Ne hanno scritto tutti e ancora se ne scrive, per ovvi motivi. E io non sono una giornalista. Diciamo che ai fatti di Parigi ci sono arrivata, ma non è il fine, e non vuole essere il tema. Ciò che voglio dire, è questo: troppo semplice alzare lo sguardo al mondo solo quando il mondo lo percepiamo piccolo. Io soffro sempre. Soffro comunque. Anche quando c’è silenzio. Anche quando sono felice della mia piccola vita, piccola ma parte di qualcosa di più grande. È faticoso. E a volte vorrei non accorgermi di ciò che accade fuori da me. Ma io credo sia necessario. Necessario per vivere una vita piena. Attiva. Allunghiamo il collo, apriamo gli occhi, ascoltiamo le urla lontane. Ci sono anche altre Parigi in questo mondo. A volte meno eclatanti, a volte solo meno conosciute. Non indigniamoci solo quando è più semplice, e possiamo metterlo in mostra. Indigniamoci ogni giorno. Anche per quelle cose che sono apparentemente piccole e per quelle che nonostante la loro grandezza, preferiamo far finta che non esistano. Basta che stiano là. Lontano. Abbastanza lontano, da pensare che non facciano parte della nostra fetta di mondo.

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