In questi giorni si sta molto discutendo delle conseguenze economiche del terrorismo e dell’impatto che gli attacchi di Parigi potrebbero avere sulla già flebile ripresa europea. La prima risposta, quella delle Borse, è stata rassicurante: lunedì 16, alla riapertura dei mercati, i maggiori indici europei hanno chiuso al di sopra della parità a eccezione di Parigi che ha perso un modesto 0,08%, mentre a Wall Street l’indice S&P500 ha chiuso in rialzo dell’1,49 per cento. La ragione di questa sostanziale indifferenza (persino i titoli legati al turismo e ai viaggi hanno contenuto le perdite a pochi punti percentuali) è data dalla convinzione che gli attentati terroristici abbiano tutto sommato un impatto economico molto modesto: “le persone magari evitano di andare nei centri cittadini per qualche giorno, ma si limitano a rinviare i loro acquisti, non li cancellano del tutto”, scrive l’Economist secondo cui la reazione dei mercati è dovuta alla percezione che la tragedia di Parigi rientra nel novero di altri brutali attentati che hanno sconvolto l’Europa (Madrid nel 2004, Londra nel 2005), “eventi terrificanti, ma per fortuna rari”. E molti altri commentatori sono sulla stessa linea del settimanale britannico e sottolineano inoltre come un’eventuale escalation nella guerra all’Isis avrebbe un impatto estremamente limitato anche sui prezzi del petrolio in quanto la Siria non è tra i maggiori esportatori di greggio. Considerazioni ragionevoli e valide, peraltro suffragate dall’esperienza storica: nel 2005, quando Londra venne sconvolta da attacchi kamikaze sulla rete del trasporto pubblico, l’indice di Borsa recuperò le perdite nell’arco di pochi giorni e il Pil britannico chiuse il trimestre con una crescita dello 0,8 per cento.

Il punto però è che, a differenza del passato, in questi giorni sono in molti a temere che l’attacco a Parigi segni un cambio di marcia della strategia terroristica e che ci sia da temere un’escalation di attacchi in Europa. Una visione alimentata anche dai report di importanti banche d’affari come Citigroup, che ha “rivisto al rialzo il rischio di attentati non solo in Medio Oriente, ma anche in Occidente, così come le probabilità di un incremento dell’intervento militare internazionale in Siria, Iraq e Libia” e che ritiene che gli attentati di Parigi possano avere implicazioni durevoli sull’Eurozona e sulle aziende europee nonché su quelle che fanno business con l’Europa. E la memoria torna agli attentati dell’11 settembre il cui costo in termini economici è stato stimato dal New York Times in qualcosa come 3.300 miliardi di dollari, includendo anche le spese della guerra in Afghanistan e in Iraq. A ben guardare le spese militari e della difesa hanno spronato la crescita statunitense e non si può escludere che la tentazione francese (e anche quella di diversi altri Stati europei) di intervenire sul terreno per spazzare via il sedicente califfato risponda, oltre che a ragioni militari, anche ad obiettivi economici: la guerra come ultima chance per stimolare un’economia che non riesce più a crescere, la guerra come leva per rimuovere i paletti dell’austherity che stanno soffocando l’economia europea.

Il fatto che la Francia abbia deciso di appellarsi all’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona, quello che fa scattare l’obbligo per tutti i Paesi membri di fornire aiuto e assistenza a uno Stato europeo vittima di un’aggressione armata sul suo territorio, sembra avvalorare quest’interpretazione. E a rafforzarla sono anche le parole del presidente della Commissione Ue Jean Claude Junker che ha sottolineato come la Francia, trovandosi a far fronte a gravi atti di terrorismo, “deve affrontare spese supplementari che non devono avere lo stesso trattamento delle altre spese” rispetto al Patto di stabilità e che questo principio “vale anche per gli altri Paesi“. Un via libera di fatto alla flessibilità di bilancio con la giustificazione delle spese militari e di sicurezza che porterà ad aumentare il deficit e il debito non solo francesi. Questo non potrà non avere importanti ripercussioni sugli equilibri dell’Unione, con una Germania che rischia di trovarsi a fronteggiare pulsioni politiche interne sempre meno europeiste. I tedeschi, come ha mostrato il caso Grecia, non intendono pagare per i debiti di qualcun altro e i venti di guerra che soffiano dalla Francia rischiano di alimentare le mai sopite tensioni tra partner europei, tra chi chiede la flessibilità e i Paesi del Nord che pretendono un rigido rispetto dei parametri. E’ questa probabilmente la partita che si giocherà nelle prossime settimane: se non si arriverà ad un ragionevole accordo sulla flessibilità di bilancio, gli scossoni alla costruzione europea non tarderanno ad arrivare.

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