“Un Paese più orgoglioso. Mille ricercatori, 500 cattedre universitarie speciali, 500 assunzioni nella cultura”. Così recita uno dei 25 tweet con i quali il premier Matteo Renzi ha presentato all’Italia la legge di stabilità 2016. In sostanza, il governo ha in mente un piano di rientro dei nostri migliori cervelli ora sparsi per il mondo: una misura per la quale, spiega Palazzo Chigi, “sono previsti 40 milioni per il prossimo anno e 100 milioni dal 2017”. Una novità? Non proprio. Gli ultimi quindici anni sono stati segnati da una serie di tentativi per richiamare giovani italiani dall’estero. Poco esaltanti, almeno finora. Nell’attesa di conoscere i dettagli del nuovo progetto, il governo farà bene a tenere conto dei precedenti, prima di spendere i 100 milioni di euro annunciati.

Per avere un quadro della situazione, bisogna dare uno sguardo ai numeri. Nel 2014, riporta Istat, 91mila italiani hanno abbandonato i confini nazionali, un dato cresciuto del 10% in un anno. Sono calati del 7%, invece, quanti hanno deciso di tornare in patria, circa 26mila persone. Il saldo negativo rappresenta la fotografia dell’emorragia italiana: meno 65mila unità, una cifra peggiorata del 20% in un anno. Le cifre ufficiali, però, riguardano le iscrizioni e cancellazioni all’anagrafe e rischiano di sottostimare la realtà. Secondo una ricerca Editutto del 2014, in dieci anni 700mila laureati hanno lasciato l’Italia: tra quanti finivano l’università, nel 2012, un giovane su quattro (il 27,6%) cercava fortuna all’estero.

Per frenare la fuga dei cervelli, dunque, sono già in campo due misure. L’ultimo provvedimento, in ordine di tempo, risale allo scorso luglio, perciò bisognerà aspettare ancora prima di fare un bilancio. La norma prevede un incentivo fiscale, una riduzione del 30% per cinque anni del reddito imponibile, per i lavoratori attivi all’estero negli ultimi cinque anni e ora impegnati prevalentemente in Italia. Unica condizione, rivestire una qualifica per la quale sia richiesta la laurea e un’alta specializzazione.

Poi, c’è la cosiddetta legge Controesodo, varata nel 2010, diventata operativa nel 2012 e prorogata fino al 2017. Obiettivo della norma è riportare in Italia i laureati under 40, all’estero da almeno tre anni. I giovani possono godere di uno sgravio fiscale del 70% dello stipendio per gli uomini e dell’80% per le donne. Secondo la Repubblica degli stagisti, a giugno 2015 questa legge aveva attratto in Italia 7mila emigrati nel giro di tre anni. Una cifra non trascurabile, ma di certo una goccia nel mare se rapportata ai 700mila laureati persi in un decennio.

Ma le attuali misure in campo non cancellano i tentativi falliti del passato. La prima chiamata alle armi dei cervelli in fuga risale al 2001. Le università italiane hanno incassato incentivi per garantire un contratto a studiosi italiani e stranieri, impegnati in attività didattica e scientifica all’estero da almeno tre anni. Per l’operazione, il governo ha stanziato 40 miliardi di lire ogni anno. Ma il piano si è rivelato un fallimento e nel 2006 l’esecutivo Berlusconi ha smesso di finanziarlo. Il progetto, secondo un rapporto dell’istituto Aspen, ha portato nel nostro Paese solo 466 studiosi, di cui circa 300 italiani.

Poco esaltante anche l’esperienza del progetto “Giovani ricercatori Rita Levi Montalcini“. Il programma offre contratti nelle università italiane a ricercatori reduci da tre anni di lavoro all’estero. Ma, approvato nel 2009, la sua breve vita è stata segnata da gravi ritardi. Basti pensare che il bando 2010 ha trovato effettiva applicazione solo tre anni dopo, mentre quello del 2011 non è mai stato indetto. I finanziamenti per il progetto sono stati tagliati, da 6 a 5 milioni di euro, come anche gli anni di contratto, passati da sei a tre. Nel giro di sei anni – e siamo fermi al bando 2013 – il piano ha portato solo 103 ricercatori nel nostro Paese.

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