Sugli Open Data in Italia siamo ancora all’anno zero. Trasparenza e disponibilità di dati sono aumentate negli ultimi anni, ma il loro utilizzo è ancora quasi esclusivamente legato alla buona volontà di associazioni e gruppi pionieristici. E’ questo il risultato del rapporto Tacod sul ruolo degli Open Data contro la corruzione in quattro paesi europei (Italia, Regno Unito, Austria e Spagna) presentato ieri ad Oxford dall’istituto di ricerca Rissc e Transparency International Italia. Secondo il rapporto, ad oggi, l’efficacia dei dati aperti nell’intercettare la corruzione è praticamente nulla ed esistono ancora evidenti resistenze da parte delle pubbliche amministrazioni, soprattutto a Sud, nella pubblicazione dei dati: “Solo il 17% delle Pa contattate ha partecipato al sondaggio” scrivono i ricercatori e “la maggior parte vive l’apertura dei dati come un obbligo formale e rende disponibile il numero minimo di dati necessario a rispettare la legge”.

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In Italia sia l’offerta che la domanda di dati non godono di buona salute. “Se l’offerta di Open Data in Italia è quasi ‘primitiva’, ben lontana dai livelli di UK e Usa, anche la domanda di dati è pochissimo sviluppata” si legge nel rapporto. In generale la qualità dei dati è bassa e non presenta segnali di miglioramento, ma quel che è più significativo è che “alcuni dati, importanti per la lotta anticorruzione, non sono aperti”. “Più che dati di maggiore qualità e quantità, ne servirebbero di diversi, per esempio quelli su associazioni e fondazioni controllate dai politici, dati giudiziari e sulla criminalità. Quelli che abbiamo non sono sufficienti a scoprire la corruzione” spiega Lorenzo Segato, coordinatore della ricerca e direttore di Rissc.

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Dal punto di vista formale, legislativo e giuridico, l’Italia non ha prestazioni peggiori degli altri paesi. “Siamo molto indietro rispetto al Regno Unito” spiega Segato “ma Spagna e Austria sono messe molto peggio”. “Il Paese ha raggiunto alcuni requisiti di trasparenza e apertura inconcepibili fino ad anni recenti” scrivono i ricercatori. Eppure esistono ampi margini di miglioramento, come l’approvazione di un Freedom of Information Act, ovvero una legge per l’accesso libero alle informazioni, e una maggiore trasparenza dei dati sulla sanità pubblica, ancora troppo opachi. “Sarebbero utili specifiche informazioni sugli obiettivi programmati dai dirigenti del settore sanitario e il loro reale raggiungimento, l’elenco dei fornitori delle strutture e i criteri adottati nelle spese”, si legge. Se si abbandona la lettera scritta e si passa alla pratica i nodi vengono però al pettine. Perché la maggior parte degli enti pubblici si oppone all’applicazione delle norme sulla trasparenza e solo in pochi si sono adeguati correttamente. Secondo il rapporto il motivo di questo fallimento è legato soprattutto alla “mancanza di una cultura degli open data” ma anche all’inadeguatezza degli strumenti informatici e alle difficoltà organizzative connesse all’aggiornamento dei dataset.

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“Il processo di apertura dei dati in Italia è un cantiere”, continua Segato. “Il Governo deve credere e investire su questo settore, ma i soldi vanno spesi meglio. Non si possono stanziare milioni di euro su un singolo progetto open data e non sostenere economicamente le centinaia di associazioni e Ong che fanno monitoraggio civico e usano i dati della PA per denunciare il malaffare anche a rischio della propria incolumità”. Sono spesso loro i pionieri di questo mondo che continua a restare ai margini del mainstream dell’informazione. Se l’offerta di dati non brilla, stando al rapporto, anche la domanda latita. I risultati del sondaggio condotto da Rissc tra i lettori de ilfattoquotidiano.it, che ha coinvolto quasi 4mila persone e i cui risultati sono riportati nella ricerca, dimostra che solo il 7% dei cittadini ha utilizzato i data base online come fonte dell’informazione, il 12% è ricorso almeno una volta agli Open Data, mentre il 76% non ha mai richiesto l’accesso a un documento dell’Ammministrazione Pubblica. E solo il 20% del campione ha sentito parlare di iniziative fondate sul riutilizzo dei dati aperti come Open Expo e Monithon. Risultati che non possono sorprendere, vista la difficoltà di accesso e interpretazione dei dati.

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In ogni caso il rapporto non ha riportato evidenze sul ruolo degli open data nel contrasto alla corruzione. “Le aspettative in materia di prevenzione e contrasto della corruzione attraverso gli open data sono troppo alte” avverte Segato, secondo cui “i dati aperti non sono in grado di individuare casi di corruzione, ma possono al massimo evidenziare situazioni anomale”. Del resto è impossibile escludere che i dati aperti non abbiano un ruolo nella prevenzione e contrasto della corruzione visto che in Italia, sul punto, siamo ancora ai primi vagiti. Una cosa invece è certa: gli Open Data nel nostro Paese sono ancora insufficienti e devono essere aggregati con altre informazioni per poter creare conoscenza. Per riuscire a farlo però occorrono competenze tecniche e di analisi, e “chi è in grado di accedere e riutilizzare i dati non ha quasi mai competenze investigative e per individuare i sintomi della corruzione. E viceversa”, denuncia Segato. Anche per questo motivo il ricorso ai dati nel giornalismo di inchiesta è ancora così povero e traballante.

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Questo ovviamente non diminuisce il valore degli Open Data, in termini di trasparenza e democratico accesso alle informazioni. “Anche se gli Open Data non hanno mostrato finora un grande impatto nel prevenire e nell’individuare casi di corruzione, rimangono uno strumento molto utile” conclude Davide Del Monte, direttore esecutivo di Transparency Italia, partner nel progetto “Non scordiamoci del loro potere deterrente nei confronti dell’amministrazione pubblica: la percezione di essere sotto controllo è un fattore che disincentiva i comportamenti illeciti”.

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