Ha destato grande impressione la notizia fornita dal quotidiano algerino ‘El Watan’ sulla prima vittima in una manifestazione contro l’estrazione di gas da scisto. Moulay Nakhou, 30 anni, ha perso la vita avvelenato dai gas sparati dalla polizia per domare le manifestazioni anti fracking in Algeria ad In Salah, una città di 50.000 abitanti nel cuore del Sahara e nei pressi dei siti di perforazione. Moulay non era in strada, perché disabile e di fragile costituzione. Aveva 33 anni, e si trovava tra le mura domestiche. Il padre ha dichiarato che l’unica “compensazione” che riuscirà a concepire sarà l’abbandono dei progetti di sfruttamento dello shale gas. Una reazione che mostra con chiarezza impressionante la portata del movimento di In Salah.

Dopo 50 anni dai test nucleari condotti dalla ex potenza coloniale francese a Reggane nel Sahara algerino, il governo Hollande, il gruppo francese Total, altre compagnie petrolifere multinazionali – tra cui Halliburton e Schlumberger note per la loro rapacità in Iraq – e lo stesso governo algerino sono nel mirino di una protesta ecologica e democratica senza precedenti in Algeria.

Il fracking è vietato in Francia dal 2011 e solo un comportamento neo coloniale può immaginare di rinverdire i “fasti” delle esplosioni nucleari della “force de frappe” nelle distese desertiche. La regione è quella del bacino dell’Ahnet, che si estende per 100 mila chilometri quadrati e, secondo gli ingegneri della Sonatrach Oil &Gas, conterrebbe almeno 200.000 miliardi di metri cubi di shale gas. Si tratta di territori popolati con fatica e resi fertili laddove frequenti apparizioni dell’acqua dalla falda sotterranea lo consentono. In queste zone l’ecosistema è molto precario e l’inquinamento delle acque è visto come “una questione di vita o di morte”.

In località remote e difficilmente accessibili come quelle in questione, il fracking, ha anche un grande impatto a livello sociale: i lavoratori spesso sono costretti a trasferte, le economie locali sono stravolte, servono infrastrutture pesanti e i costi energetici per il funzionamento degli impianti sono proibitivi. L’eolico e il solare potrebbero convenientemente sostituire e frenare lo sviluppo dello shale gas.

Un recente report della Pjm, società statunitense di trasmissione elettrica, spiega come il basso costo dell’energia eolica e la parity grid raggiunta dal solare possano ridurre il ricorso al gas di scisto, frenando lo sfruttamento di nuovi giacimenti e integrando una fetta sempre maggiore di energia rinnovabile nella rete elettrica fino a quando i fossili non si riveleranno più necessari.

Ma cosa fa pensare che l’ostinata ricerca di fossili a tutti i costi, nelle zone più impervie, tra i ghiacci e sul fondo dei mari abbia una spiegazione razionale e contempli una preveggenza per il futuro che ci prepara?

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