casavetroNella casa di vetro’, di Giuseppe Munforte, appartiene a quel genere di romanzi che non fanno prigionieri e spaccano il pubblico in due fazioni: innamorati persi e chi lancia il libro contro il muro, applicando una delle indimenticate leggi di Calvino. Ammetto che se non avessi dovuto scrivere questa recensione, io sarei rientrato nella seconda categoria, e do per scontato che questo sia un limite mio (ho fatto lo scientifico) e non un difetto del lavoro di Munforte. Mi è però rimasta una domanda insoluta: perché mai l’autore ha scritto questo romanzo? Atmosfere che dire rarefatte è peccare in difetto, lirismi a frattale, una scelta dei termini e un cesellamento delle parole talmente ricercato da causare crisi diabetiche, assieme però a una discreta dose di immagini stereotipizzate che spingono il lettore a verificare l’aerodinamicità del volume. Prendiamo un passaggio a caso:

“La mattina sciaborda verso il mezzogiorno con torrenti di luce bianca. Oggi non ci si sente, tra le pareti vicine dei palazzi, come in una qualunque strada caverna – dove l’autobus blocca tutto, una sopraelevata all’incrocio, e negozietti a una vetrina e edicole protette ai lati da una tenda di cellophane annerita; dove la gente passa insignificante, a gruppi, in solitudine, s’incrocia e s’annoda, come batteri sulla vastità della materia inalterabile, i visi coloriti, lo sguardo attento, i vestiti scuri dell’inverno; dove qualche vecchio svolta su una bicicletta arrugginita, lentamente, senza rispettare la segnaletica, come uno scarafaggio, piatto contro il marciapiede per non essere schiacciato.” (168-9).

Non me ne voglia Munforte, che ha avuto anche la soddisfazione di vedere questo lavoro candidato al Premio Strega 2014, a conferma che – per fortuna di noi tutti – lettore che vai, e giudizio che trovi, ma io ero convinto che verbi come ‘sciabordare’, immagini tipo ‘i torrenti di luce’, naturalmente ‘bianca’, li usassero oggi solo quelle vecchissime signore amanti delle belle lettere d’antan, del ricciolo poetico rococò anche in letteratura.

E invece no, li usa anche Giuseppe Munforte, classe 1962 (sì, novecento) in un romanzo di 200 pagine che è interamente costruito così, con l’uso e l’abuso di un lirismo che senza dubbio mira alla poesia e magari la raggiunge, ai posteri. Diafana la trama: il protagonista si chiama Davide e la sua voce narrante ci racconta di questa famiglia che lui può ormai solo osservare da fuori, con cui non può interagire. Intuiamo che ne è stato cacciato, eppure la sua vita ruota in modo ossessivo attorno a questa ‘casa di vetro’, appunto, alla quale gli è consentito avvicinarsi, ma niente di più. Davide ci racconta, tra un ricamo linguistico e l’altro, dei due bambini della casa, Sara e Andreas, accuditi dalla mano sicura e amorevole della moglie, Elena.

Sullo sfondo, una Milano dalle atmosfere lattiginose, descritta nel modo citato sopra. Non c’è uno sviluppo di trama: tutto si gioca sul filo della memoria, del desiderio utopico, del come eravamo e come stiamo, con rapidi flash-forward in un futuro prossimo che dovrebbero servire a rassicurare il lettore sul destino sereno dei nostri non-eroi.

Per parlare di un romanzo così non resta che spaziare e fare paralleli con quadri impressionistici e notare come Munforte di fatto applichi a questo lavoro gli stessi stilemi dell’impressionismo francese: la negazione dell’importanza del soggetto, il ritorno alla letteratura paesaggistica per rapidi colpi di pennello, così, giusto a dare una vaga idea di cosa si potrebbe o si vuol vedere, ma che in realtà non è disegnato. L’attenzione dell’autore è tutta sulla singola pennellata e al colore, rispetto alla struttura narrativa. La prevalenza delle emozioni dell’autore è imposta al lettore ed è totale: sono loro l’unica chiave interpretativa di una storia non-storia, basata anzitutto sulla memoria di essa più che sulla sua dinamica, sul suo crescere e modificarsi, su una realtà auspicata. Così, detto addio alla trama, non resta che intrattenersi con personaggi piatti, “come scarafaggi” direbbe Munforte, riferendosi all’univoco stereotipo ascientifico di scarafaggio che ha in mente lui.

Piano emotivo e onirico si mischiano insieme, in un alternarsi di ombre e di fantasmi personali, di sensazioni messe sulla pagina alla ricerca della sintassi perduta, con sciabordante uso di punti e virgola che s’innestano su punti e virgola, perché se poco poco il periodo fosse meno lungo e intricato, ci perderemmo tutto lo stream of consciousness di cui siamo capaci.

Alla fine viene da pensare che la bellissima copertina di Maurizio Ceccato, illustratore talentuosissimo e qui chiaramente ispiratosi al surrealismo di Magritte, sia di gran lunga la miglior critica a questo libro: “Ceci n’est pas un roman.”

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