Ho visto Selma, intenso film sulla marcia dei neri, Martin Luther King alla testa, da Selma a Montgomery (Alabama), ricostruzione di un evento che, nel marzo del 1965, ha cambiato la storia americana. Ero a Selma nei giorni, nei luoghi, nei tempi che il film, diretto da Ava DuVernay, ha realizzato con estrema attenzione persino ai dettagli, e devo guardarmi da quel presunto “saperne di più” di chi c’era, perché la memoria è, per forza, personale. E anche se resta profonda, è legata al dove e al quando e al perché eri presente, e non all’insieme dei fatti. Ma il rapporto fra il testimone di un evento e un film di quell’evento che, per l’organizzazione e la sequenza dei fatti, e per la precisione della scrittura (sceneggiatura e dialoghi), è più un documentario che una fiction, diventa un’involontaria prova di confronto fra ricerca e memoria.

Dirò che c’è tutto. Tutto è vero e realmente accaduto, in questo film che racconta ciò che è ormai un passaggio essenziale della storia americana, come l’attraversamento del Delaware da parte di Lincoln, o i giorni di Cuba. Ma non posso non notare un’insolita differenza fra un memorabile evento storico e la sua narrazione. Contro ciò che accade il più delle volte, il fatto vero è stato – appariva ai suoi protagonisti – più grande. Di solito scopri dopo, quando si forma un contesto e si organizza la sequenza storica intorno all’episodio a cui hai partecipato e hai vissuto, scopri dopo, il senso ma anche la dimensione dell’esperienza vissuta. Non sai mai quando la storia sta avvenendo intorno a te e si realizza con la guida di personaggi che ti sono familiari, e che solo più tardi riconoscerai come protagonisti e autori della Storia. Ci sono pagine di Fallaci, di Terzani, di Bernardo Valli che lo dimostrano.   

Adesso, di fronte allo schermo, è come risvegliarsi per assistere a eventi della cui portata sapevi molto, quanto a informazioni e persone, mentre li stavi vivendo, ma molto poco rispetto al peso di ciò che accadeva. Selma è uno di quegli eventi. Noi (tutta quella gente che si vede nel film e moltissima altra presente sul posto e di fronte ai televisori d’America, in quei giorni di quell’anno) sapevamo che si stava svoltando in massa in un passaggio ignoto e arrischiato, dietro il quale non si vedeva l’esito, ma che non si poteva fermare. Sto cercando di dire che il respiro della vita nelle stanze in cui si stava preparando la marcia (le marce) e si stavano ripetendo parole e frasi che sarebbero diventate discorsi per i libri di scuola e per il marmo dei monumenti, e la tensione, giovane, intensa, febbrile (la nonviolenza) e il senso di sospensione e di attesa, ma anche del sapere che non c’erano vie di fuga, era più grande del film.

È raro che si viva un fatto nella misura giusta della sua grandezza. Ma a Selma (per anni e decenni ce lo siamo detti fra coloro che c’erano) è accaduto. Martin Luther King stava cambiando la storia e tutti i partecipanti sapevano ciò che davvero accadeva. Una tensione fortissima, allo stesso tempo serena (la nonviolenza, i discorsi di King) e ansiosa, quasi disperata, percorreva i motel, gli accampamenti, le riunioni nelle chiese e nelle strade, l’ospitalità nelle case afroamericane in periferia e in campagna, della piccola città sperduta nel Sud. Il film ha scelto che non si vedessero, nelle inquadrature della marcia (sia quelle filmate dalla regista DuVernay, sia quelle tratte dagli archivi delle televisioni) Pete Seeger, Harry Bela-fonte, Joan Baez, Peter Paul and Mary, anche se li nomina. E non accenna a Bob Dylan (che è stato almeno un’altra volta accanto a King insieme a Joan Baez). Le marce di Selma, iniziate con il Bloody Sunday (un morto, centinaia di feriti, violente cariche di polizia a cavallo, aggressione alle donne nere, anche anziane, che partecipavano alla marcia, il famoso pestaggio di Bob Dylan da parte di polizia, ma anche di gruppi di aggressori bianchi) sono state tre, il 7, il 15 e il 2 marzo.   

Dirò cos’altro mi manca, accanto alla recitazione straordinariamente bella dell’attore David Oyelowo, che diventa Martin Luther King in modo non solo credibile, ma vero. Mi manca il gruppo. King si staccava dal gruppo solo quando arrivava Coretta, la donna, la moglie che ha avuto un ruolo grandissimo nella sua vita. Altrimenti il suo modo di funzionare era nel gruppo. Nel film alcuni ci sono (Andrew Young, colto, giovanissimo “reverendo” di Atlanta che poi diventerà deputato, ambasciatore alle Nazioni Unite, ministro della presidenza di Carter) Joshua Williams, Ralph Abernathy. Non trovo Jesse Jackson, che ancora oggi è un leader sulla scena americana dei diritti civili, ed era presente, proprio come testimone di quei giorni, alle due inaugurazioni di Barack Obama. Il gruppo mi manca (e sto omettendo i molti nomi degli straordinari protagonisti di quei giorni) perché dal gruppo emanava un senso di energia e di fiducia, di solidarietà, di amicizia, ma anche di appassionato attivismo, di continuo contributo di ciascuno agli altri che forse solo la nonviolenza può spiegare (e che infatti, in Italia, si trova in un solo partito, purtroppo piccolo, purtroppo isolato in questa pratica straordinaria della nonviolenza), i radicali di Pannella e Bonino che infatti hanno portato all’Italia, da soli, diritti civili che non c’erano e non ci sarebbero stati ).   

Ecco, in questo film Martin Luther King è solo, o almeno più solo della realtà che io ricordo. Ero (sono) legato da una fraterna amicizia a Andrew (Andy) Young, che nel film è quasi soltanto una presenza fisica, con poche battute. E mi manca dunque, nel film, il suo attivismo instancabile e coraggioso, ma anche la bravura di avversario temibile del governatore George Wallace, per la capacità di Young di argomentare e orientare, da grande predicatore che diventa grande avvocato, e che diventa la voce narrante (ovvero il portavoce di King) nei telegiornali di allora. Si deve a Young (e manca nel film) la vittoria del Movimento nonviolento di fronte al giudice federale che finalmente autorizza la marcia e consente al presidente Johnson di “federalizzare” la Guardia nazionale di Wallace, ovvero di metterla agli ordini del presidente degli Stati Uniti, non del governatore dell’Alabama. E il presidente Johnson, dopo molte esitazioni (che nel film diventano bellissimi dialoghi fra l’uomo coraggioso King e il presidente astuto che tenta di liberarsi con prudenza della grana di quel religioso senza pace e senza violenza che per giunta è anche premio Nobel dal 1964) cede e si sposta subito dalla parte del protagonista della Storia.

Ma non serve fare il gioco delle diversità fra fatti e film. Questo film ha fatto alcune scelte che, credo, devono essere approvate. Accende la luce su Martin Luther King, anche a costo di oscurare “il gruppo” perché è lui l’uomo che ha segnato, con il nome, le parole, la guida e la vita, la grande rivoluzione nonviolenta dei diritti civili in America. Dà alla narrazione il tono asciutto, poco sentimentale e quasi duro degli eventi immensamente rischiosi in cui il risultato è il cambiamento di un Paese. Stabilisce, per le scuole, le università, i giovani di adesso e del futuro, la vera storia del come un Paese può passare da un’epoca all’altra senza odio e senza distruzione (almeno non dalla parte rivoluzionaria). Bella la scena di Malcom X che, poco prima di essere ucciso, incontra Coretta King e sembra che si stia affacciando sulla nonviolenza, lui che aveva predicato la guerra come unica uscita.

Mancano, nella loro grandezza naturale, alcune scene incredibili anche allora: l’immensità della folla giovane e di tutti i gruppi culturali, religiosi, etnici, accorsi a sostegno di King dopo il Bloody Sunday, lo schieramento della musica giovane più celebre e più amata, degli intellettuali più grandi, dei ragazzi di scuola media e dei ragazzi dei college, di un mare di preti e di suore cattoliche, di autobus che continuavano ad arrivare scaricando tra la folla rabbini ortodossi e studenti di Yeshiva di tutta l’America. Eppure questo film ci dà in modo rigoroso e autorevole (ogni cosa è vera, comprese le frasi dei dialoghi) la cronaca di un fatto rarissimo: la storia del bene, solidale e fraterno, che prevale sul male del disprezzo e della segregazione. Accade perché vi sono testimoni coraggiosi: le persone che hanno attenzione e celebrità testimoniano, le facce di tutte (tutte) le televisioni raccontano, i corrispondenti di tutti i giornali scrivono. Scrivono tutto. Raccontano il razzismo all’America bianca. Selma, dunque, contiene una lezione molte volte più grande e importante del bel film che ricorda e che celebra.

il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2015

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