Si parla troppo poco – e purtroppo spesso a sproposito – di educazione. Uso deliberatamente il termine “educazione” – parola di origine latina, adottata nel mondo anglosassone, ma ripudiata a livello ministeriale – perché credo che l’istituzione pubblica apposita più che ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dovrebbe chiamarsi ministero dell’Educazione (è vero: suona pericolosamente di Galateo e buone maniere… ma i motivi li vedremo dopo). Che si chiami in un modo oppure nell’altro i risultati dovrebbero essere gli stessi e al momento anche per l’istruzione e la ricerca si fa ancora meno di quanto se ne parli. Questo è uno di quei temi sui quali apparentemente tutti sono d’accordo, ma poi al dunque, come è noto, la situazione peggiora paurosamente di giorno in giorno. Tutti ammettono che gli investimenti in formazione-educazione sono cruciali per lo sviluppo economico, più di qualsiasi altra spesa, intanto però i tagli continuano inarrestabili.

La scuola, le università non sono ancora i baracconi che qualcuno evidentemente desidererebbe, ma sono su quella strada. Nel breve periodo il problema dei denari è certamente il più urgente e il più influente, ma sfortunatamente non è il più importante. Dico sfortunatamente perché, anche in questo caso come per molti altri, se bastassero solo i denari per fare bene, sarebbe tutto troppo semplice. Difatti il problema maggiore, il primo da affrontare e risolvere è un altro. Ci vuole una visione, un disegno, un progetto da parte delle Stato di che cosa vuole fare con il denaro pubblico, ed è quello che manca oggi. Anche il poco che viene speso, esce senza una pista precisa e risulta alla fine inutile o dannoso.

Questo dobbiamo chiederci, a che cosa serve la scuola o l’università? Per quale fine deve essere speso tanto (o poco) denaro pubblico? Questo interrogativo al momento è senza nessuna risposta, o meglio con tantissime risposte tutte differenti, il che è ancora peggio, per la frammentazione e l’impoverimento evidente delle finalità. Invece la risposta, date le caratteristiche del denaro che viene utilizzato, sarebbe semplicissima, quasi banale: lo scopo principale della scuola pubblica deve essere quello di formare dei buoni cittadini. Lo stato con i suoi denari tutela infatti solo interessi collettivi e generali.

Questo non vuol dire che i giovani non debbano essere incentivati alla valorizzazione delle loro capacità individuali, che sono il fondamento del progresso collettivo; ma le doti personali, le conoscenze e le capacità individuali devono essere collocate all’interno di un contesto in cui la priorità è data alla convivenza sociale, al rispetto delle regole, al senso dell’utilità generale. Non ci serve preparare tecnici anche se preparatissimi, che però poi non abbiano consapevolezza che l’utilizzo delle loro conoscenze si giustifica solo nel rispetto delle regole e delle leggi. Non ci sono capacità individuali che possano essere apprese e tantomeno impartite col denaro pubblico, se separate dal contesto morale e civile della società. Questa non è una teoria eversiva o cripto comunista. Non è nemmeno una specie di stato etico. È una caratteristica non secondaria del principio liberale del “Rule of law”, uno dei pilastri su cui si dovrebbe reggere uno stato laico di diritto.

Al momento il sistema educativo predominante, almeno a livello universitario, ma anche a livello di scuole superiori, invece privilegia i contenuti teorici e tecnici sul contesto. Quante volte abbiamo sentito docenti-don Abbondio affermare: “A me non interessa cosa fate fuori da queste aule, io sono qua solo per insegnare questo o quello”. Apparentemente questo modello che separa le conoscenze tecniche dai comportamenti morali e finisce per minare le stesse basi della convivenza sociale, si ispira alla tradizione anglosassone, con la sua esaltazione della competizione e delle caratteristiche individuali. In realtà questo è falso, perché il modello educativo statunitense come quello inglese contemplano momenti e istituzioni paralleli e aggiuntivi, in grado di assicurare un’adeguata formazione etica e sociale degli individui, che non consenta alle conoscenze professionali di agire in senso distruttivo rispetto agli interessi generali.

Intanto dalle nostre parti, sopratutto negli ultimi anni, del modello anglo sassone abbiamo importato solo gli aspetti negativi, il tecnicismo e certe forme di meritocrazia a rovescio (tipo Gelmini). Abbiamo dimenticato sia la nostra tradizione culturale a base umanistica – che non vuol dire che si debba studiare solo il latino e il greco – che impone anche a chi desidera approfondire aspetti tecnici di continuare ad avere un occhio attento verso altri aspetti, appunto “umani” dei problemi. Parimenti abbiamo voluto scordare le radici sociali e collettive della scuola e delle università pubbliche e il ruolo dello Stato in tali processi, così come ben spiegato anche dalla nostra Costituzione (art. 33). E alla fine ci troviamo nella presente pessima situazione di un sistema educativo senza arte né parte: schiacciato da un lato dalle ristrettezze imposte dagli ignoranti, che sostengono che “con la cultura non si mangia” e dall’altro espressione dei progetti senza testa né cuore degli emulatori parziali del sistema educativo nordamericano. Invertire questa tendenza è urgente. Ma forse sarebbe veramente troppo pretendere che questa classe dirigente – con i modesti mezzi culturali di cui dispone e le finalità personalissime al contrario così esplicite – decidesse di affrontare seriamente il problema dell’educazione in Italia, per fare qualcosa di concreto in grado di invertire il like a rolling stone delle università e delle scuole pubbliche nel nostro paese.

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