Non l’ho mai fatto e oggi voglio farlo, voglio parlarvi della mia città. Mi perdonerà se la prendo a pretesto per un ragionamento più ampio, ma trovo l’esempio perfettamente calzante.

La mia città, ai più, non è nota per il suo Rinascimento, per Filippo e Filippino Lippi, per la cinta muraria trecentesca (una delle più antiche integre in Italia), per il castello voluto da Federico II, per il pulpito di Donatello che si affaccia dal Duomo, per il museo di arte contemporanea o semplicemente perché è la seconda città della Toscana per abitanti e forza economica.

La mia città è nota per due ragioni: la crisi del distretto tessile e la forte immigrazione cinese. La mia città è Prato.

Oggi la mia città è l’archetipo di ogni città italiana, dove i problemi si toccano e tutto è fermo.

Anche nella mia città, come in molte, nelle amministrative 2009 prevalse un candidato “civico” di centrodestra con identikit perfetto (ovviamente imprenditore e ovviamente indagato), con l’appoggio determinante di Pdl (vi ricordate di quando c’era il Pdl?) e soprattutto Lega (vi ricordate di quando c’era la Lega?) che quell’anno fece un vero e proprio boom. Da allora, nella mia città si governa e si fa consenso utilizzando il carburante della “paura”. Della crisi, della riconversione del distretto, dell’immigrazione. Da allora nessuna idea per il futuro, solo inaugurazione di progetti approvati nelle giunte precedenti, feste in piazza, proclami razzisti e raid notturni in ditte cinesi.

In particolare la comunità cinese è diventata il capro espiatorio di tutti i mali. La destra non ha avuto bisogno di inventare niente, ha solo cavalcato un sentimento diffuso, senza nessun filtro della ragione.

Del resto questo oggi si chiede alla politica, aspirare tutto senza filtro.

E così si governa l’oggi, nell’immobilismo totale, con alla testa una generazione di amministratori e di politici stanchi e senza idee.

Nella mia città però esistono anche molti giovani che fanno politica, ed alcuni sono iscritti anche al partito democratico. Si sono iscritti per molte ragioni, ognuna diversa, ma con un minimo comun denominatore: una situazione vissuta come ingiustizia insopportabile (nel mio caso fu la riforma Moratti, ai tempi del liceo) e la voglia di cambiare le cose. Allora ci si iscrive e, dopo una prima fase di straniamento, dovuta ai riti e alle litanie della politica, si capisce che, impegnandosi, è possibile incidere e da subito sulla realtà, forse ancora non a cambiare il mondo ma sicuramente a modificare intanto la vita della propria comunità, sia essa una scuola, un quartiere, un luogo di lavoro.

Alcuni di questi giovani, meno di vent’anni di media, hanno provato a fare questo: si sono iscritti e hanno cominciato a riflettere sui problemi del proprio territorio, crisi e integrazione in primis, e a tirarne fuori alcune possibili soluzioni.

La mente di un ventenne difficilmente pensa all’oggi, è proiettata per natura a un orizzonte più lontano e soprattutto non ha paura. E allora sono state molte le proposte su nuove tecnologie, sistema di trasporti verde, studenti, diritti, ma soprattutto una in particolare sta provocando in questi giorni molta agitazione in città e nella giunta: La proposta dell’insegnamento delle lingua cinese come opzionale nei licei linguistici. Ovviamente i partiti della maggioranza si sono subito dichiarati contrari, invocando ancora lo spettro della paura. L’equazione facile è: “più parleremo la loro lingua e più attrarremo immigrazione cinese in una città già satura”. A favore invece si sono già dichiarati le associazioni di industriali e artigiani, i sindacati, personalità della cultura del calibro di Franco Cardini, insegnanti, associazioni di cooperazione. E questo perché, oltre agli aspetti legati all’integrazione che tanto spaventano la destra, è innegabile il vantaggio economico che potrebbe portare una proposta del genere, se venisse approvata. <

Già tra 5 anni potrebbero esserci, a Prato, alcune centinaia di giovani in grado inserire nel proprio curriculum la conoscenza della lingua della futura più grande economia del mondo. Ragazzi formati per competere in un mercato globale, dove la conoscenza è un’arma fondamentale. Attaccare l’immenso mercato cinese e non più solo subirne i contraccolpi potrebbe diventare una chiave per far ripartire il sistema economico di una città che è, di fatto, già ponte naturale tra Asia e Europa. E questo grazie a un’idea di ragazzi di vent’anni, un’idea semplice ma problematica, prima di tutto perché profondamente antielettorale, in una città dove la regna la paura.

Ecco, questi sono ragazzi che hanno voluto dare dignità al loro impegno, e mi sento di dire che per me loro sono “la politica”, o almeno come la vedo io.

E allora lasciatevi dire una cosa da uno che non le risparmia al proprio partito quando sbaglia, che è arrivato a occupare la propria sede nei momenti di massima contrapposizione tra la dirigenza e la sua base: “le parole sono importanti, incidono sulla realtà, e vanno usate correttamente, senza mai generalizzare”.

La miglior generazione della politica, questi ragazzi e altri che militano con passione in altri partiti secondo le proprie convinzioni, ha bisogno di sostegno. Ogni volta che uno di loro si sente associare alle parole “schifo”, “marcio”, “casta”, solo per il semplice fatto di far politica, senza nessuna differenziazione, tutti nel mucchio (e vi immaginerete quanto spesso posso capitare), la tentazione di abbandonare tutto e mettersi a fare altro è forte.

Se a un ragazzo così si ripete sistematicamente che è come Razzi o che quello che fa lo porterà a diventare inevitabilmente come lui, l’unico risultato sarà che dalla politica quel ragazzo si allontanerà e ad occuparsi di politica rimarranno solo i Razzi, che nel fango invece ci sguazzano, lasciando loro la possibilità di prendersi tutto, compreso il nostro futuro.

@lorerocchi

Articolo Precedente

Governo, i 5 Stelle a Grasso: “Calendarizzare la sfiducia al viceministro De Luca”

next
Articolo Successivo

La destra è morta, la sinistra pure e noi non ci sentiamo tanto bene – II

next