La diminuzione delle nascite in Italia è un caso che ha a lungo appassionato demografi ed economisti. Il declino della fertilità registrato in Europa occidentale tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso viene comunemente attribuito all’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro. I più alti livelli di istruzione e le migliori prospettive di carriera hanno causato in molti paesi un ritardo della prima gravidanza, determinando, nel tempo, una riduzione del tasso di fecondità.

Dagli anni Novanta, però, le nascite hanno ripreso a crescere in buona parte d’Europa. Tranne che in Italia, dove tassi di partecipazione femminile relativamente modesti e la persistenza di significative discriminazioni salariali si sono accompagnati a un inasprimento ulteriore del calo della fertilità.

Perché? L’Italian fertility puzzle, come viene chiamato nel dibattito accademico, è dovuto soprattutto a differenze istituzionali. In buona parte dell’Europa settentrionale e continentale le istituzioni sono più women-friendly. Forniscono servizi di cura e assistenza – quali gli asili nido – e offrono maggiori tutele agli aspiranti genitori – per esempio congedi parentali che consentono a entrambi i partner di contribuire alla cura dei figli  – grazie ai quali la maternità stravolge meno la vita della donna e della coppia.

Un buon esempio viene dalla Germania, dove ad agosto è entrata in vigore una legge che garantisce a ogni bambino sopra i 12 mesi un posto all’asilo, oppure altre forme di assistenza a casa sostenute dai sussidi dallo Stato. Lo schema è meno generoso di quelli vigenti nei paesi scandinavi, ma è molto avanzato per gli standard continentali.

Il problema fondamentale, però, risiede nel sistema di tutele e incentivi del mercato del lavoro. In uno studio effettuato con le colleghe Francesca Modena e Concetta Rondinelli della Banca d’Italia, pubblicato sulla Review of Income and Wealth (il Pdf si può scaricare gratuitamente qui), abbiamo individuato nella precarietà femminile e nell’insicurezza economica delle donne (e delle coppie) la causa principale del declino della fertilità.

Secondo le nostre stime, basate sui dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia per il periodo 2002-2008, le donne precarie hanno il 60% di probabilità in meno di pianificare una prima gravidanza, a parità di altri fattori come l’età e l’istruzione. È un dato terribile, ma non certo sorprendente. Le lavoratrici sanno che la scelta di diventare madre può compromettere ogni possibilità di realizzazione nel mondo del lavoro. Specie se sono precarie, e non godono di alcun congedo di maternità, né tanto meno di indennità parentali. L’esperienza quotidiana mostra che, per una giovane precaria, la gravidanza può portare alla conclusione del rapporto di lavoro, rendendo ancora più difficile il reinserimento professionale dopo il parto. Le difficoltà di reinserimento inaspriscono i problemi finanziari della famiglia, per giunta esasperati dalla nascita di un figlio, e aumentano per la donna il rischio di cadere nella trappola della precarietà, caratterizzata da una sequenza di piccoli contratti a termine senza prospettive, e possibilità sempre più scarse di avere soddisfazioni sul piano professionale.

Come insegna il caso tedesco, bisogna offrire asili nido – e che siano di qualità – certo. Ma soprattutto bisogna garantire alle donne le necessarie tutele contrattuali. Il congedo di maternità non può essere un “privilegio” delle lavoratrici a tempo indeterminato. È un diritto che va esteso a qualsiasi forma di lavoro. Il congedo di paternità deve essere esteso al di là delle forme ridicole che assume oggi nel nostro paese. Alle neomadri deve essere garantito il reintegro sul posto di lavoro dopo il congedo, e deve essere un reintegro più che dignitoso. Le donne devono potersi liberare dalla paura di perdere il lavoro – e, con esso, di perdere tutto – a causa della maternità. Perché è giusto, perché così deve funzionare il mercato del lavoro di un paese civile. Ma anche perché conviene, dato che simili provvedimenti contribuirebbero a rilanciare l’occupazione femminile, visto che un miglioramento della soddisfazione professionale della forza lavoro può determinare miglioramenti della produttività, e considerato che un declino della fertilità grave come quello italiano certo non fa bene all’economia.

Ma per realizzare questi obiettivi, di civiltà prima ancora che di politica economica, c’è bisogno di risorse. Come quelle che, in un periodo di stress fiscale sempre più duro, vengono bruciate per abolire irresponsabilmente l’Imu, determinando la necessità di nuovi tagli (che secondo le prime ipotesi giornalistiche colpiranno i fondi per l’occupazione, le risorse per l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili, per i controlli contro l’evasione fiscale e la manutenzione della rete ferroviaria).

E c’è bisogno di una classe politica che, anziché impostare le sue campagne elettorali sul rafforzamento o la preservazione delle rendite esistenti (come quelle dei proprietari di abitazioni o dei lavoratori a tempo indeterminato), e invece di occuparsi quotidianamente dei guai giudiziari di un multimiliardario ultrasettantenne, punti a vincere le elezioni con proposte innovative e concrete che estendano diritti (non solo economici, ma anche e soprattutto civili) e tutele alla popolazione sempre più numerosa dei discriminati e degli esclusi.

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