La Mezzaluna rosa, sezione “gay e islam” del Torino Glbt Film Festival ha mostrato documentari e film su situazioni palestinesi, iraniane, marocchine, turche. Su coppie o relazioni miste a Berlino o a New york. E un filmone con tutto dentro, dal musicale al melò, girato in Libano. Quasi sempre c’è di mezzo l’Occidente, dall’autore che non ha nulla a che fare con l’Islam ma è incuriosito, come l’olandese (di origine indonesiana) Chris Belloni, al belga che esplora la Turchia, al libanese doc sì, ma che ormai vive negli Usa.

Unica eccezione, non ve l ‘aspettereste mai, è l’Iran. Tutto iraniano il film pro-transessuali: una storia educativa, promozionale, un film che si inserisce perfettamente nel filone antidiscriminatorio. Un film uscito e proiettato in Iran! Ma riguarda strettamente il tema parallelo della transessualità, che in Iran è trattato in modo completamente diverso, anzi opposto rispetto all’omosessualità. Lo Stato iraniano riconosce che il sentirsi uomo in corpo di donna o viceversa è qualcosa di innato, un problema che non va affrontato con la repressione ma con l’accettazione e l’operazione. Ma le vecchie generazioni non sono preparate e Adineh- Eddie alla fine va a operarsi in Europa.

La scelta dei film e dei documentari e i discorsi fatti nei dibattiti si sono tenuti rigorosamente distanti dalla islamofobia. “Non è tanto la religione, quanto la tradizione sociale a reprimere o far nascondere l’omosessualità” dice il curatore Alessandro Golinelli. Gli dà ragione in pieno il corto “Cant” che comincia con un giovane che prega sul tappeto rivolto alla Mecca accanto al letto in cui dorme il suo partner con cui ha appena finito di amoreggiare. Quello che fa la preghiera sta per tornare in Siria e il partner newyorkese scopre con sgomento che si sta andando a sposare. “Lo faccio per la mia famiglia, ma anche per me, non posso vivere senza sposarmi. Ma tra noi tutto continuerà come prima”. A indiretta conferma che il contesto sociale pesa più della religione in quanto tale ci potrebbe essere proprio la situazione libanese. A mia domanda il regista libanese, paese dove si affiancano cristiani e musulmani, dice che secondo lui non ci sono differenze nette tra l’omofobia in ambiente musulmano o cristiano. (Ndr: Se guardiamo alla opposizione francese ai matrimoni gay, tra i musulmani era sicuramente maggiore, ma anche qui per ragioni etniche e sociali. E comunque si è fatta meno sentire, molto meno, di quella cristiana.)

Il premio del pubblico è andato a un film israeliano, Alata, storia d’amore tra uno studente palestinese e un giovane avvocato israeliano, tra Tel Aviv e Ramallah. In questo film il contesto palestinese viene descritto come molto più omofobico, ma anche qui senza una sottolineatura religiosa. Uno dei due protagonisti è impersonato da un giovane attore di madre italiana e padre arabo israeliano, Nicholas Yacob. Dice: “Il copione mi ha conquistato perché non ha stereotipi e non si schiera da nessuna delle due parti.

A fine proiezione qui a Torino sono stato avvicinato da un ragazzo israeliano che mi ha chiesto se non mi vergognavo di rappresentare così Israele, ma anche alcuni arabi in passato si sono lamentati della presenza di un fratello terrorista tra i personaggi. “Alata” è obiettivo, coglie il male in entrambe le fazioni: per questo mi è piaciuto subito, è neutrale”.
Ecco la video intervista che gli abbiamo fatto.

Per la cronaca il Premio più importante del Festival, quello della Giuria, è andato invece al film olandese Boven is het stil, storia di un contadino olandese cinquantenne.

Ce ne parla, per la giuria Vladimir Luxuria, che ho videointervistato

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