Dunque va a finire che i giovani non cercano più i mastri, perdono la disposizione ad essere “veri” apprendisti. Perché dovrebbero? Dal momento che i loro orizzonti si sono “allargati” e che il sapere legato alla pratica di un mestiere è rimasto, per così dire, confinato in un ambito ristretto?

A che può servire, per esempio, imparare a scolpire la pietra se si pensa di andarsene? E se si pensa che, là dove si andrà, la pietra rifinita ad arte non ha la stessa importanza che in paese, dove ogni casa ha un piccolo “pezzo” di quell’arte? E che può servire, ancora, imparare a costruire e suonare uno strumento tradizionale, se i riferimenti “esterni” valorizzano altri suoni e altri modi di condividerli? Se le occasioni e le situazioni in cui quella musica ha senso non si danno più?

Diventa un circolo vizioso: le occasioni scompaiono, e scompare la stessa possibilità che, in quelle occasioni, si costruiscano situazioni efficaci. I giovani perdono la disposizione a cercare i mastri e così non hanno più nemmeno l’occasione di essere apprendisti…o aspiranti-apprendisti.

In questo scenario, i mastri non cercano più i loro apprendisti. Dato che, semplicemente, non sanno più dove e come cercarli. Mancano ormai quelle che (con una certa retorica) gli stessi “servizi alla persona” chiamano “occasioni di incontro fra le generazioni”. Certo, ci sono sempre i “canali familiari” (insufficienti già nella tradizione). Però giovani e anziani non frequentano più gli stessi luoghi sociali, e non partecipano più alle stesse occasioni di festa semi-pubblica.

Restano apparentemente le occasioni di “festa pubblica” ormai “canonizzate” sul modello del festival e della tv. Sicché anche la festa pubblica tradizionale si è piano piano adeguata alla forma stessa della separazione-consumo.

Anziani/giovani. Percepiti come consumatori diversi di diversi prodotti, e dislocati in diversi “momenti” di un palinsesto-contenitore. La stessa festa insomma diventa sempre meno suntuaria e sempre più spettacolare.

E poi un artigiano sa benissimo (a dispetto della retorica del “di padre in figlio”) che i rapporti familiari non servono a creare e formare un “vero” apprendista. Sa benissimo che un figlio o un nipote non fanno la continuità del mestiere e non garantiscono che quella stessa continuità di saperi possa darsi (e avere successo) anche in futuro. Un mastro sa che per garantire questa continuità non basta la prospettiva vissuta di un nucleo familiare (per quanto “allargato” possa essere). Dato che il mestiere, la sua pratica, il complesso di conoscenze e di sensibilità necessarie, non si riducono mai al legame “di sangue”. Occorre piuttosto “qualcosa” che non si trova in legami familiari preesistenti alla pratica del mestiere, ma in una alleanza concreta. Il mastro sa già (dall’interno di una pratica consolidata) che il “mestiere” necessita di una dimensione (sociale) diversa rispetto a quella della famiglia (nucleare o allargata che sia). Una dimensione pragmatica. Non (ancora) macro-sociale, ma che è-già oltre i limiti di un gruppo familiare.

(… continua) 

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