Lo share è stato inclemente (2,97% e soltanto 789mila telespettatori) ma “Game change”, il film su Sarah Palin andato in onda venerdì 2 novembre su Raitre, va promosso per qualità e approccio. Al centro della vicenda, i mesi che hanno portato l’allora governatrice dell’Alaska a giocarsi nientemeno che la vicepresidenza degli Stati Uniti accanto a John McCain. Nonostante l’approccio evidentemente “liberal” della pellicola, l’odiatissima Palin non viene dipinta come un mostro ultraconservatore, ma come una donna catapultata in un’avventura più grande di lei. Una donna piena di insicurezze e lacune, evidentemente non pronta a ricoprire il ruolo di vicepresidente degli Stati Uniti d’America.

A interpretare la Palin, una delle attrici più brave (e sottovalutate) della storia del cinema: la superliberal Julianne Moore. E il rischio di affidare a un’attrice politicamente schierata il ruolo di una repubblicana pro caccia, antiabortista, contraria ai matrimoni gay e amante delle armi da fuoco, era altissimo. Si rischiava di offrire al pubblico un mostro politico, o peggio ancora una macchietta, molto più simile alla parodia che ne ha fatto Tina Fey al Saturday Night Live piuttosto che alla vera Sarah Palin. E invece la Moore ha dimostrato ancora una volta tutto il suo talento e ha tratteggiato un personaggio fragile, problematico, testardo, ignorante quanto basta (memorabile e imbarazzante la scena in cui la Palin mostra di non conoscere la Fed). Ma non un obbrobrio. Perché la pessima pubblicità di cui ha goduto la candidata alla vicepresidenza nel 2008 ha trasformato una personalità strana e complicata in una donna stupida e ottusa.

Sarah Palin, che politicamente ha posizioni discutibili, meritava il rispetto che si deve a una donna che tenta di scalare la cima più alta e tortuosa del mondo: gli Stati Uniti. “Game change” ha questo merito, dunque. Ed è bizzarro che a ridare dignità alla donna Palin sia stata Hollywood. Con Julianne Moore in prima fila, per giunta.

Non che politicamente venga fuori un talento, beninteso. Lacune incolmabili, incompetenza diffusa e imbarazzante, approccio agli altri al limite della sociopatia: tutte cose che nel film si vedono eccome. Ma l’essere umano, la donna, l’outsider che da quella periferia estrema dell’impero che è Wasilla, Alaska, sbarca nel cuore della democrazia a stelle e strisce, viene rispettato, raccontato e persino compreso e giustificato.

“Game Change” dovrebbe servire innanzitutto ai media americani, anche a quelli di destra, che per alcuni mesi hanno reso la vita impossibile a una “hockey mom” conservatrice che aveva, ai loro occhi, soprattutto un grande e insormontabile difetto: non amare il politically correct e non volersi appecoronarsi ai mass media liberal.

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