Nella mia lunga permanenza a Rebibbia mi è capitato un anno di insegnare al piano superiore del G12. Vi si trovano detenuti sottoposti ad Alta Sorveglianza (A.S), un trattamento speciale di custodia ristretta molto simile al 41 bis, il famigerato “carcere duro” di Cutolo e Riina. Sono persone che hanno commesso reati gravi – per lo più traffico internazionale di stupefacenti con l’aggravante dell’ingente quantitativo – nella condizione di capo promotore di un’associazione a delinquere. Il primo comma dell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario (introdotto dal decreto Scotti-Martelli contro l’emergenza delle stragi dei primi anni ‘90) elenca questi reati definiti “ostativi” perché non consentono di usufruire dei benefici di legge, tra cui i permessi premio dell’art 30 ter, finché non si è declassificati al ruolo e al piano dei detenuti “comuni”.

In A.S. i controlli sono più severi e, nonostante la gentilezza e professionalità degli agenti della “rotonda” all’ingresso, non è escluso che la situazione generale possa intimorire. Ai detenuti sono ridotti i colloqui e i contatti con i familiari e anche le ore d’aria. La condizione normale è quella di stare 22 ore al giorno chiusi in celle dove si deve condividere tutto con altre 5-6 persone delle più svariate estrazioni e provenienze. Se solo si considera quanto è complicata talvolta la convivenza, in case senz’altro più ampie e accoglienti, con persone scelte volontariamente perché le si ama… Per non parlare dei reality show, dove si contano i giorni che dei bellimbusti, muniti di tutti i confort e in compagnie non del tutto sgradevoli, riescono a stare insieme.

È cosa nota che, in situazioni di privazione come l’A.S., c’è chi sceglie di andare a scuola semplicemente per rompere la monotonia, senza reale interesse per lo studio. Quando entrai in classe e cominciai a far lezione, alcuni non si degnarono di staccare gli sguardi dai monitor dei loro Pc. C’erano un paio di albanesi, un camorrista napoletano, un siciliano legato a Provenzano, un peruviano. Una volta di più, ebbi la conferma che non bisogna mai fermarsi alle apparenze. Si trattava di persone di un’intelligenza molto vivace.

Contrariamente a quel che pensavo, non stavo parlando a vuoto. Erano detenuti iscritti all’università, cui era stato concesso l’uso del portatile per motivi di studio. Sul computer prendevano appunti e cercavano su “encarta” (uno dei pochi programmi consentiti) il significato delle parole che dicevo. In quella classe ho potuto svolgere un programma eccezionale con lezioni interessantissime e ricerche molto approfondite; che a volte, di loro iniziativa, poi in cella sintetizzavano in schemi esplicativi.

Un ergastolano mi chiese di fornirgli gli atti dell’Assemblea costituente in cui si discusse l’art. 27 Cost., dove si stabilisce il principio del trattamento non contrario al senso di umanità e di una pena indirizzata alla rieducazione e reinserimento sociale dei condannati. Cercava argomenti per dimostrare l’incostituzionalità del “fine pena mai”.

Oltre alla scuola, tra le poche attività ammesse in A.S. c’è il laboratorio teatrale. È lì che sentii per la prima volta aleggiare il nome di Salvatore Striano. “Sasà”, come tutti lo chiamavano, era un punto di riferimento per gli aspiranti attori. Oggi Striano è diventato famoso a livello internazionale come protagonista del film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire”, Orso d’oro al Festival di Berlino e David di Donatello nel 2012. Sabato pomeriggio sarà a Tagliacozzo per presentare il film inserito all’interno della rassegna denominata Tagliacozzoinfilm.

Scuola, teatro, cinema, possono contribuire a offrire a detenuti ed ex detenuti un’opportunità di vivere in un mondo diverso da quello di origine, trovare altri contatti, stare alla larga dalla criminalità e non tornare a commettere nuovi reati.

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