In linea perfetta con il più classico stile comunicativo “a effettaccio”, Beppe Grillo ci presenta la catastrofe per implosione della Lega attingendo a piene mani dal repertorio terroristico berlusconiano: “giustizia ad orologeria”!

Dunque, l’ennesima – quanto paranoide – congiura dei giudici al servizio del potere, che risuona dal tempo di Mani Pulite: la narrazione mendace con cui torme di cecchini-killer – dalla Santanché ai vari Straquadanio (con la new entry Umberto Bossi) – hanno riempito di ragionamenti a casaccio le loro insopportabili comparsate mediatiche allergiche alla verità. E la performance grillesca non ci risparmia neppure il tocco vittimistico di prammatica: “i prossimi della lista siamo noi!”.

Non c’è dubbio che la coltre protettiva del sobrio governo presunto tecnico favorisca la realizzazione sottotraccia dei disegni abortiti nella Bicamerale inciucesca: la coalizione collusiva tra i componenti centrali del sistema politico, con relativo taglio delle ali; a destra come a sinistra. Altrettanto certo è che quanti non stanno sotto l’ombrello protettivo, steso da Giorgio Napolitano a protezione delle corporazioni di partito, ora rischiano grosso per la loro stessa sopravvivenza. Però questo non è tutto.
È giusto e ragionevole ridurre a complottismo il tornado che ha fatto volare per aria gli stracci padani insozzati (del resto, ben noti e oggetto di ricorrenti rumors)? O non piuttosto stiamo assistendo agli esiti inevitabili dell’ennesima guerra per bande, tutta giocata all’interno di un soggetto impazzito quale la Lega, in un crescendo di colpi bassi e porcate? Già il giornalismo investigativo del Fatto segue questa traccia.

Soffermiamoci – ora – su un aspetto non ancora chiarito, prendendo in esame la stura più recente allo smascheramento a cascata di fatti scandalosi/scandalistici nel mileu bossiano: l’operazione finanziaria abortita in quel della Tanzania. Vicenda la cui regia occulta si spiega meglio andando a ricercarne i bandoli per linee interne.
Tutto inizia con una serie di trasferimenti che partono da vari istituti di credito, compresi gli uffici genovesi di una privat bank, la Aletti. E che arrivano all’orecchio della stampa locale, ben prima della magistratura, ad opera di chi era a conoscenza diretta dei fatti; magari se contiguo per ragioni di residenza al genovese Belsito. Ma è quanto avviene dopo a gettare ulteriori sospetti sulle gole profonde al lavoro: sembra credibile che una banca della Tanzania adotti nei confronti di cospicui flussi di denaro estero criteri più selettivi e sospettosi di un istituto londinese o di Zurigo? Più plausibile pensare alla – diciamo così – “messa in guardia” da parte di una corrispondente istituzione italiana accreditata a dare l’altolá.

Se tutto ciò sembra ragionevole, allora bisognerebbe pure andare a cercare chi – in questi anni – ha ricoperto incarichi istituzionali che gli consentano l’accesso a canali interstatali. Mentre l’ala leghista vincente si premura di smentire in tronco la stessa ricostruzione di Umberto Bossi, che vorrebbe presentarsi come un perseguitato dalla giustizia, fiondandosi nel tribunale di Milano e offrendo il massimo della collaborazione alla Procura. Il ritornello è sempre il solito: “fare chiarezza”. Ossia, l’appello a quel principio di trasparenza introvabile ormai da troppo tempo in un confronto politico ridotto a imboscate in penombra. In effetti, ennesima dimostrazione di ipocrisia. E – come diceva La Rochefoucault – “l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù”. Omaggio insopportabilmente “peloso”.

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