I Cure tornano a esibirsi in Italia il 7 luglio a Rho per l’Heineken Jammin Festival e il 9 al Rock in Roma. Le due date italiane s’inseriscono in un tour europeo che partirà, a maggio, dall’Olanda e attraverserà Spagna, Svezia, Germania, Francia e Danimarca, prima di giungere nel nostro paese.

Che dire? Un motivo per parlare dei Cure si trova a prescindere: tour, cambi di formazione, album, rossetti sbavati, occhi bistrati e capelli cotonati. Fino a prova contraria, il gruppo ha scritto pagine importanti del rock, ispirando uno stuolo di ragazzini, capaci di ricalcare uno stile in verità unico e inimitabile. Non tutto è oro quello che luccica, parlare della discografia ad esempio, genera qualche ansia, ciò che Robert Smith ha fatto della sua creatura dopo l’uscita di Wish nel lontano ‘92 resta, in termini musicali, una delle più grandi “tragedie” della storia recente.

A rischiarare cuore e mente ci pensa però “Il Vangelo secondo Robert”. Rileggendo le antiche parabole, si scopre che il contributo dei Cure allo sviluppo della New Wave è pressoché fondamentale. Per farsene un’idea, si faccia riferimento “ai salmi” descritti da Simon Reynolds in Post-punk 1978-84. Affermare che quel tomo sia la bibbia dell’intero periodo non è certo un’esagerazione. Un musicofilo attento e severo dovrebbe tenerlo – accanto al rosario – sul comodino del letto, da sfogliare ogni sera “prima delle preghiere”.

E se è vero che la fede alimenta la verità, Seventeen Seconds, Faith e Pornography sono gli oracoli a cui aggrapparsi, concepiti – “senza peccare” – tra il 1980 e la fine del 1982. I dischi esaudiscono ogni supplica e sono la risposta concreta per chi crede che la musica possa rappresentare una manifestazione divina in terra. A Forest, Primary e A Strange Day: valgano le suddette per descrivere, in parte, la magia intonsa di un trittico da consegnare ai posteri ma, se dovesse rimanere tempo, si provi a dare uno sguardo a quanto successo “prima e dopo”.

Gli esordi del gruppo raccontano la ricerca di “un centro di gravità permanente”: Three Immaginary Boys (1979) e Boys Don’t Cry (1980) divertono e raccontano come sia possibile generare in soli due minuti e ventuno secondi autentici capolavori.
Poiché manca spazio per scrivere nei dettagli, “queste Mie” siano da ritenere semplici impressioni a corredo di “un viaggio senza ritorno”. Volendo approfondire, esiste la rete; “la qualunque” è a portata di tutti: approfittatene!

Tornando ai Cure, i cinque album d’inediti usciti dopo Pornography, rivelano la precisa volontà di cercare nuovi orizzonti. La conversione è in atto e The Top (1984) ne anticipa le dinamiche; sostenere dunque che un disco meriti di trovare spazio nella propria collezione, anche solo per un pezzo-capolavoro, è un inno alle proprie contraddizioni! Ma se la canzone si chiama Shake Dog Shake, la logica non ha ragione d’essere.
A proposito di contraddizioni, ci sarebbe The Head on the Door (1985). Close to Me se la ricordano tutti, così come In Between Days e A Night Like This ovvero, tre splendide pop song in grado di traghettare la band nel mare magnum delle classifiche commerciali; le considerazioni a riguardo sono logiche e scontate, pertanto da evitare.
Il disco incompreso però è Kiss Me Kiss Me Kiss Me (1987), il quale anziché proseguire lungo la strada maestra, s’inerpica nei sentieri impervi della sperimentazione, se così vogliamo chiamarla: un territorio sdrucciolevole che non si confà alle abitudini della band anche se il risultato – a conti fatti –  è lodevole, soprattutto quando a prendere il sopravvento sono le consuetudini.
La maturità si chiama Disintegration (1989), canzoni come Fascination Street e Disintegration svelano la nuova identità della band, capace di autorigenerarsi, mettendo a fuoco in maniera compiuta il passato. Se non fosse per tutte quelle tastiere, il disco “potrebbe gareggiare” senza timore con i lavori migliori.

Il viaggio come già detto termina ufficiosamente nel ’92: Wish è il canto del cigno, vagamente stonato se possibile, ma anche in questo caso esistono perle da lucidare. Da allora la fede ha lasciato il posto al dubbio: Wild Mood Swing (1996), Bloodflower (2000), The Cure (2004) e infine 4:13 Dream (2008) sono “la profezia capovolta” da cui fuggire; album concepiti – “peccando” – tra il ‘93 e la fine del 2008. I dischi esaudiscono ogni maledizione e sono una risposta concreta per chi crede che la musica possa essere invece una manifestazione profana sulla terra.

Non rimane che attendere “Il Messia”: Robert Smith è pronto a risorgere e soprattutto a salvarci, con un “Live” che promette miracoli in serie. In scaletta – infatti – ci saranno soltanto “le laudi” incluse negli album in odore di santificazione. Che i Cure siano con voi e con il vostro spirito; andate in pace, la messa (non) è finita.

9 canzoni 9 … per celebrare la parabola dei Cure

Lato A

10:15 Saturday Night

Jumping Someone Else’ s Train

A Forest

Primary

Lato B

A Strange Day

Shake Dog Shake

Charlotte Sometimes

Fascination Street

Open

(Nella foto Robert Smith, LaPresse)

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