Attorno alla proposta di un virtuale ius soli per i nostri scrittori “stranieri”, su Saturno si è aperto un bel dibattito sulla necessità di riconoscere la forza narrativa e linguistica di chi, proveniente da un “altrove” geografico e culturale, ha scelto l’italiano per la propria nascita alla scrittura.

Spesso le case editrici, i media e le pagine culturali dei giornali riducono a un fatto folcloristico – come dice Igiaba Scego nel suo intervento – lo statuto di migrante dello scrittore, disinteressandosi della qualità letteraria della sua opera.

Fa impressione rileggere le parole con cui Roberto Calasso, nel 1978, commemorò il grande scrittore Rodolfo Wilcock, argentino di nascita e italiano per scelta, che trascorse tra Roma e Viterbo gli ultimi 23 anni della sua vita: “A noi non rimane che ricordare, con rimpianto, come Wilcock è apparso in  questo Paese, che si è comportato con lui un po’ come l’Italia fascista  col grande incisore Escher: se Escher seppe vivere per anni in Italia  senza farsi nominare da nessuno, Wilcock è riuscito per anni a non farsi includere nei listini di Borsa dei nostri ponderati recensori […]. Il suo italiano è come un isolotto tropicale, carico di antica e folta vegetazione, preso nella corrente di un fiume ammorbato dagli scarichi industriali, che scorre in una magra e proterva campagna. Su quell’isolotto troppo pochi, finora, hanno  provato a mettere piede. E non è escluso che, come già altre volte, la fama di Wilcock si riverberi in Italia da fuori, per esempio dalla Francia, dove comincia a essere letto e apprezzato ben di più di troppi illustri scrittori che qui occupano le vetrine”.

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