Due veri film. Che più diversi non si può. Ma che fanno pensar bene: i grandi possono vivere al massimo tutta una carriera e i registi di talento prima o poi vengono distribuiti anche in Italia, anche se sono danesi e lo fanno strano e violento. David Cronenberg ha 68 anni e ne ha attraversati 36 partendo dai condomini ballardiani de Il demone sotto la pelle, raccontando la potenza manipolatrice della tv in Videodrome, rivelando il suo romanticismo (non è uno scherzo) in Crash, ragionando sull’aggrovigliamento tra il vero e il falso in eXistenZ fino ad arrivare a una forma classica, pulita, in cui i temi latenti si nascondono sapientemente dietro al lato manifesto. Ecco quindi A dangerous method. Il film “sulla psicanalisi” (riduttivo) che mancava al genio di Toronto. Che evolve ed è sempre se stesso. Anche in questo film, come in tutti i suoi lavori, la parola chiave è: contagio. Contagio tra tre menti, quelle dei protagonisti Jung-Freud-Spielrein, contagio mondiale della psicanalisi che sbarca in America in una delle scene più significative (quando i due padri della disciplina arrivano a New York, Freud dice: “Lo sanno che gli stiamo portando la peste?”), contagio tra film e ciò che sta fuori dal film. Perché nel raccontare l’amore impossibile tra Jung (Fassbender) e Sabina (Knightley) nel raccontare la psicanalisi, l’Europa alla vigilia della Prima guerra mondiale, l’ebraismo di Sigmund (Mortensen) in cerca di scientificità e il misticismo in nuce dell’allievo Carl Gustav, il regista si confessa. Mettendo in scena schermaglie erotiche e dialoghi sulla libido, Cronenberg suggerisce che analisti e artisti hanno molto in comune. Ma, come Jung, questi ultimi raccontano per creare ciò che ancora non c’è, non solo per riconoscere ciò che esiste già. Gli artisti sono untori. Tutto verte sul linguaggio, la scrittura e i segni (anche fisici), responsabili – come Allegra Geller di eXistenZ – di inventare realtà attraverso i giochi del senso. Perché il senso non è un oggetto inerte e le parole sono agenti mutageni. Come la tv che divora James Wood nel grande capolavoro del 1983 o come, anche, il ristorante russo che inghiotte le illusioni di Naomi Watts ne La promessa dell’assassino. Ma artisti, analisti, esseri umani, non possono uscire dalla rappresentazione che copre il buco nero del desiderio senza nome (dove si dirige lo psichiatra folle Otto Gross, Vincent Cassel, vera anima nera di A dangerous method, che di regole e simboli non vuol proprio sentir parlare). Luci abbaglianti e coni d’ombra, animus e anima, la casa al lago di Jung e l’abitazione viennese di Freud, abiti bianchi che si sporcano di sangue e fango: le opposizioni si mescolano. E Cronenberg cambia forma, non tradendo le pulsioni di sempre.

L’altro caso sullo schermo, questa settimana, si chiama Nicolas Winding Refn, 41 anni e una personalità cinematografica notevole maturata in 7 precedenti film (di cui 5 da vedere assolutamente: la triologia di Pusher, Valhalla Rising, Bronson). E ora arriva Drive, premiato a Cannes per la miglior regia. Un western metropolitano, d’ambientazione losangelina (Michael Mann è dietro l’angolo a osservare compiaciuto) con uno dei personaggi più silenti degli ultimi tempi, un Ryan Gosling che se lo conosci te ne innamori subito. Gosling è un mago della guida, fa lo stuntman per i set hollywoodiani, ma anche il driver per la mala quando capita. Eroe tragico nella giungla di cristallo, vocato al rischio e al desiderio di farla finita, come nei migliori film che fanno finta di parlare d’altro ma parlano anche e sempre d’amore, vedrà la grande svolta della vita incontrando il corpo – appena baciato – di Carey Mulligan (la bravissima interprete di An education). Drive è un gelido action movie in cui la psicologia si esprime negli atti, nelle scelte repentine e nefaste che portano a compimento quel che già prima abitava le intenzioni taciute. Winding Refn dirige meravigliosamente con un gusto quasi unico per le musiche e i suoni, con un gusto succulento per le inquadrature, la loro composizione, il montaggio, i rallenty, i feticci come lo scorpione sul giubbotto del driver. La scena in cui Gosling minaccia con un dito (un dito che è di fatto una pistola) una donna vale il film. Perchè in Drive – anche in Drive – quel che si vede non è quel che sta sotto. Come il secondo capitolo di Pusher, il più psichico, il più triste. Tanto Cronenberg asciuga e sottrae, quanto Winding Refn abbonda in effetti. Ma anche lui per lasciare sottotraccia, come un’eco dolente, la profonda solitudine di un uomo che non riesce a venire a patti con i propri impulsi. Due film con cui riempirsi gli occhi.

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