I pod strategicamente camuffato nel foulard e fascia in testa, in bici, telefonino a portata di sms veloce, da semaforo rosso: roba da multa immediata. Un vecchino cade dalla bici, chiamo il 118 rischiarando la mia anima nera. Con il sottofondo dei “Terranova” parlo con i barellieri.

Al mercato delle erbe, discuto di un cedro, con un poliziesco anni settanta evito il “dissuasore mobile” che, traditore, si alza all’improvviso dal nulla, con i “Bugz in the Attic” saluto Umberto, con i “Kings of Convenience” vedo montare il tendone dei libri, appuntamento del cambio di stagione. Accidenti sono già passati tre mesi dall’ultimo.

Bologna.

Io, su e giù per il ponte sopra la ferrovia, i binari stanno nel “fossato”, il centro è il “castello”, oltre il ponte inizia il mio quartiere, subito “fuori porta”. Appena arrivi in una città nuova, in una “grande città nuova”, quello che cerchi è il centro. Tutto si svolge lì.

Vita, locali, incontri: la frenesia di quella che io chiamo “città futurista” con le sue sinfonie di rumori, di frastuono, di movimento, di fretta, di corsa. E’ solo dopo una lunga, collaudata permanenza, coadiuvata da qualche strategico trasloco, che ci si stabilisce in un quartiere.

A quel punto parole come “zona”, “quartiere”, “isolato” acquistano senso e sonorità, sanno di rassicuranti comodità, di piccolissimi lussi, come un amico da raggiungere a piedi e al quale scampanellare di passaggio per un caffè, come si fa “giù da noi”. Si può essere popolari anche se non si pubblica “l’album solista della svolta, la soluzione, l’atto finale di un tormento senza tregua” ? Mi ricordo le orazioni di mia madre “de mediocritate”, lo spettro della mia infanzia. Lei non si sarebbe mai trasferita in un posto per essere solo un numero, un signor nessuno.

Ben vengano allora i pettegolezzi di un piccolo paese se ci sollevano dall’indifferenza del mondo che vive senza noi.

Sto in un quartiere dalle basse case di mattoni rossi con una vista su parecchi tetti e metri di cielo e alberetti che mi permettono un “bird watching” da terzo piano di un silenzioso interno, gongolando per gli innumerevoli differenti canti dei dolci merli, perdendomi nella contemplazione oziosa di tutte le altre tipologie di volatili bolognesi, diversi rispetto a quelli conosciuti nel mio paesello d’origine.

Vecchio caro tradizionale indigeno quartiere, zona “Bolognina“, multietnico global “Navile” invaso da cinesi, da artisti e studenti, per via forse-chissà-probabilmente delle case a relativo buon mercato rispetto ad altre zone.

Grazioso e solo a tratti grigiamente metropolitano, con il fascino di una piazza con un campo da basket dove a giocare sono quasi esclusivamente i figli degli stranieri. Da qui parte il mio insediamento!

Uscendo da casa mi capita di salutare sempre più gente, di conoscere sempre più volti, abitudini, orari. Rientrano come me verso sera due tipi che a giudicare dalle occhiate sugli autobus sospetto essere “esperti in borsa”. Ordinatamente, mogi, stanchi dalle fatiche della giornata scendiamo alla stessa fermata e facciamo un pezzo di strada, in fila, insieme a tutti gli altri lavoratori.

Sapere il nome del salumiere, del giornalaio e così via riempie di prestigio l’acquisto dell’etto di prosciutto nella convinzione di godere di un privilegio.

Io lo chiedo “Sgrassato, magro, dolce, stagionato, grazie!”, nel delirio di una contraddizione di termini che farebbe agitare qualunque pizzicagnolo e che fa sorridere Simone mentre mi fa: “Oggi sei più simpatica!” e mentalmente lo ringrazio quando a casa le adorate fette sono esattamente ciò che desideravo.

Oggi, al nome dell’assente Simone, la banconista di turno si è premunita di presentarsi, così che tornando, ricorderò che “anche Fernanda ha fatto il suo dovere.

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