Ormai qualsiasi discorso sulla Resistenza ha sempre meno forza e stabilità di un tempo. Sembra quasi che debba necessariamente restare in bilico, su una soglia. Per dirla subito fuor di metafora: si ha come la percezione che il modo classico di pensare la Resistenza sia andato abbondantemente in crisi. La spinta eroica e monumentalistica della Resistenza ha perso l’intensità degli inizi. Oggi, il giudizio implicito di una certa indifferenza diffusa è che il valore sociale della Resistenza è non soltanto qualcosa di residuale e marginale, ma anche qualcosa che si colloca, nella potente e cinica costellazione delle categorie della società dello spettacolo e del consumo tecnologico, tra  il “demodé”, l’ “obsoleto” e il “datato”.

Viene pertanto da chiedersi come è possibile ripensare la Resistenza oggi? Anzi, come è possibile pensarla? Innanzitutto, come è stato fatto fino adesso. È giusto che si continui con la preservazione della verità storica della Resistenza. Però è pure giusto che alcuni stereotipi diffusi vengano contrastati.

Quando si discute di Resistenza oggi, è facile che vengano chiamate in causa per opposizione, altri episodi di violenza come le Foibe, o gli eccessi delle persecuzioni e delle vendette sui fascisti da parte dei partigiani dopo il 25 aprile. Di qui la fortuna di Giampaolo Pansa e il successo commerciale dei suoi libri.

Però è anche vero che questo genere di discorsi s’inquadrano all’interno di un ben preciso dispositivo, per molti versi fatale.

Quello di un congegno a somma zero, di una funzionalità quasi meccanica, in cui un’affermazione che va in un senso deve prevedere necessariamente un discorso opposto che la annulli, quasi fossero parti o forze che si devono bilanciare per il fatto stesso di appartenere alla logica generale che sovrintende il progetto del dispositivo. Questa concezione è alla base della mentalità, per esempio, degli opposti estremismi, tanto cara anche a certi studiosi del terrorismo e degli anni di piombo; oppure è il principio regolativo di certi dibattiti sicuramente rozzi ma di sicuro sempre più popolari e frequenti, su chi ha ammazzato più innocenti, o comunque ha sparso più sangue, in cui il criterio di validità dialettica è una sorta di bilancia del sangue o dei morti. Discorsi e dibattiti che conducono diretti al qualunquismo.

Potrà sembrare paradossale, strano e addirittura provocatorio, però per pensare la Resistenza oggi, dobbiamo partire dall’assunto che è stato un atto di violenza politica eccezionale a uno stato di negazione delle libertà altrettanto eccezionale.

La Resistenza è stato senza alcun dubbio un atto di violenza politica e come tale deve essere considerato. Ovviamente non per fare un elogio della violenza tout court, ma per la sua eccezionale necessità e natura. La Resistenza ha raggiunto determinati obiettivi proprio perché è stato un atto di lotta e la lotta, fino a prova contraria, è un atto di violenza politica. E se ci si dimentica l’unicità del valore del tipo di violenza politica che ha rappresentato, il suo significato storico sociale profondo, si annullano le differenze con la violenza politica nazifascista.

Non si può far finta che la lotta e la violenza a cui sono ricorsi i partigiani siano della stessa natura e siano interpretabili allo stesso modo della violenza politica dell’autoritarismo di un sistema dittatoriale, per il semplice fatto che sono state entrambe violenze. Una cosa è prendere le armi per ripristinare lo spazio legale della democrazia, all’interno del quale i cittadini recuperano i propri diritti e la possibilità di esprimere le proprie differenze entrando sì in contrasto, ma risolvendo i contrasti attraverso la mediazione politica. Un’altra cosa è usare la violenza per controllare il cittadino nella sua quotidianità, limitandolo con l’esercizio della paura e della prevaricazione autoritaria, aspetti costitutivi e fondanti, e non effetti collaterali, di un sistema autoritario e/o totalitario.

Bisogna recuperare l’orizzonte originario e autentico proprio della lotta partigiana. Si è combattuto perché alcune forme di violenza quotidiane, istituzionalizzate, burocratizzate, strutturate, non esistessero più. Questo forse è stato il grande risultato della violenza eccezionale a cui sono ricorsi i protagonisti della Resistenza: il conseguimento di uno status giuridico di legalità sociale. Istituire uno spazio delle libertà repubblicane e democratiche che per troppo tempo erano state limitate dal reticolo di violenze e di abusi della dittatura.

Capisco che può far strano, e in parte cozza con l’immagine della Resistenza fatta eroica ed edulcorata. Il fronte della Resistenza era costituito da giovani liceali e universitari idealisti, ma anche da persone semplici, da poveracci, da analfabeti che questa scelta eccezionale e tragica della violenza la condividevano profondamente. Persone che passavano alla lotta clandestina con la speranza che, fatto lo sforzo necessario, si tornasse quanto prima alla vita normale. Perché la violenza politica dei sistemi nazisti e dei sistemi fascisti era, invece, prassi burocratica, fredda e quotidiana funzione della governamentalità assoluta sul corpo delle persone. Più semplicemente: un governo della morte. Normalità della morte.

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