Quando l’elettricista Gary Smith riuscì a entrare nella casa sul Lago Washington, nei dintorni di Seattle, si trovò davanti due cadaveri. Uno era quello di Kurt Cobain, l’altro era del rock’n’roll. Un solo colpo di fucile aveva fatto due vittime: perché dopo la morte del leader dei Nirvana lo scintillante carrozzone della musica ribelle avrebbe perso per sempre l’ultima chance di restare credibile, sincero, fedele alla necessità di curare l’anima dei ragazzi che non trovano un posto nel mondo. Il rock sarebbe diventato solo un meraviglioso circo al massimo volume: e da quel maledetto giorno del ritrovamento del corpo di Kurt, l’8 aprile 1994, avremmo avuto dischi fantastici, esaltanti, perfetti da parte di migliaia di band, ma nessuno più capace di farti sanguinare l’anima come quelli dei campioni del grunge.

Cobain, a modo suo, l’aveva capito: nella lettera che accompagnava il suo suicidio scrisse così a Boddah, il suo amico immaginario: “Io da troppi anni ormai non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla, nel leggere, e nello scrivere. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. Per esempio quando siamo nel backstage e le luci si spengono e sento il maniacale urlo della folla, non ha nessun effetto su di me, non è come era per Freddie Mercury: a lui la folla lo inebriava, ne ritraeva energia e io l’ho sempre invidiato per questo, ma per me non è così”. E chiedeva scusa ai fans: “Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti, né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e di far credere che io mi stia divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco”.

Eccola smascherata, la grande truffa del rock’n’roll. Eppure, attorno a quelle parole, gli appassionati e i critici non smettono di praticare una penosa autopsia: Kurt era scomparso a 27 anni, e allora aggiungiamolo al club delle stelle cadute a quell’età: Jimi, Jimi, Janis, Brian, poi sarebbe arrivata pure Amy. Ma aspetta un attimo, siamo sicuri che non sia stato un complotto, che qualcuno non abbia voluto farlo fuori? Così sono spuntati i dietrologi, i detective più spregiudicati, i reporter a caccia dello scoop del secolo: “Perché non ci sono le sue impronte digitali sul fucile e neppure sulla penna con cui scrisse il suo messaggio d’addio? Come aveva fatto a imbracciare un’arma così pesante quando doveva già essere intontito da una dose di eroina tripla a quella che basta per un’overdose?”. Già, perché? Ma questo non è un cold case: Kurt aveva sempre detto che la vita e la fama, e Courtney, e la piccola adorata Frances Bean non gli bastavano più, che prima o dopo quel suo “bruciante, nauseato stomaco” che tentava di placare con l’ago perennemente in vena l’avrebbe mangiato da dentro. Adorava le citazioni, nelle sue “ultime lettere”. Chiuse quella definitiva con il Neil Young di “meglio bruciare che svanire lentamente”, ma un mese prima di quel fatale 5 aprile ne stringeva nel pugno un’altra, lunga tre pagine, e lì aveva fatto suoi i versi shakespeariani, quando Amleto si trova a scegliere tra la vita e la morte, e opta per quest’ultima. Era all’Excelsior di Roma, uno stop al tour dopo la vertiginosa esibizione al Palaghiaccio di Marino.

A trovarlo esanime era stata proprio Courtney, accanto a lei nel letto dove per tutta la notte avevano fatto furiosamente l’amore, dopo una snervante separazione di 26 giorni. Mai stati così tanto tempo lontani, per inconciliabili impegni di lavoro. Così Kurt aveva organizzato delle piccole vacanze romane in chiave rock: andò in Vaticano a rubare candele da donare alla moglie, staccò per lei un frammento di Colosseo, le regalò rosari, orecchini e pasticche di Roipnol. Ma ne prese 60 lui, innaffiandole con lo champagne, e solo la corsa all’ospedale lo salvò, almeno per quella volta. Eppure, pochi giorni prima, aveva confidato a Rolling Stone di non essere mai stato così felice, malgrado avesse tentato, disse, “per ben cinque volte il suicidio” in passato. Però aveva fatto togliere dal vitriolico, primigenio album “In Utero” la canzone “I hate myself and I want to die” per non passare sempre come “un rompicazzo lamentoso, un passo schizofrenico che non pensa ad altro che a farla finita”.

Era fragile, bipolare, devastato nella psiche sin da quando era bambino: il divorzio dei genitori lo aveva schiantato. E proprio sulle sue spalle era finita la responsabilità di far da portavoce della Generazione X. Di “Nevermind” la casa discografica prevedeva una vendita di 250mila copie: furono milioni. E quel giro di chitarra di “Smells Like Teen Spirit” (che prendeva il titolo nient’altro che da un deodorante da due soldi usato da Kurt) quando lo fece ascoltare per la prima volta a Krist Novoselic lo sentì bollare come “ridicolo”. Ma divenne presto l’inno della furia e del sordo dolore dei giovani degli anni Novanta, quelli che, come i loro fratelli maggiori, non trovavano un buco dove infilare l’anima e farle trovar pace. E chi era stato segnato dal destino per farlo capire, grazie al genio dell’arte, a tutti gli altri, lo avrebbe vissuto come un martirio personale: il suicidio di Cobain è parallelo e speculare a quello dello scrittore più rivoluzionario d’America degli ultimi trent’anni, David Foster Wallace. Diverse furono solo le modalità: il romanziere autore del fluviale, abbacinante “Infinite Jest” decise di impiccarsi. Kurt invece amava le armi. Ripeteva spesso che erano il suo “sport preferito”, che amava sparare ai bersagli, che le teneva in casa per difendersi dai malintenzionati. Frequentava uno scrittore (uno più cinico di Foster Wallace), il maestro del cut-up Williams Burroughs, che dalle pistole era ossessionato e che un brutto giorno finì per stenderci sua moglie. Kurt e Bill progettavano di fare un disco insieme.

Oggi Cobain avrebbe compiuto 50 anni. Chissà cosa ne sarebbe stato dei Nirvana, senza il suo mal di stomaco assassino. Chissà se avrebbe voluto attorno alla sua torta di compleanno anche il neonato della copertina di “Nevermind”, oggi un adulto che come tutta la Generazione X nuota ancora disperatamente attorno all’esca del dollaro. Chissà come sarebbe suonato oggi alle sue orecchie quel micidiale verso di “Smells” in cui gridava “here we are now, entertain us” (“Eccoci qui, fateci divertire”) che all’epoca lo sfibrava come una minaccia, o una promessa. Chissà quali nuovi album, e come avrebbe cantato lui, assieme a Krist, Dave e Pat quella “Cut me Some Slack” che i suoi ex compagni affidarono, nel 2012, alla voce senile di Paul McCartney, il Beatle che Kurt giudicava “imbarazzante” per la sua carriera solista, preferendogli il più coerente John Lennon. Oggi magari avremmo atteso Cobain sul palco per la prossima estate, ospite di Grohl e dei suoi Foo Fighters a Glastonbury. Di certo, sarebbe stata diversa la vita della sua Frances Bean, la bambina diventata grande che non vuol sentir parlare degli anni Novanta, e che si tiene lontana dai fan dei Nirvana, quei pazzi che le mettono paura aspettandola davanti casa, sostenendo che lo spirito del padre è entrato in lei. Come in una tragedia shakespeariana, ancora una volta, senza più la colonna sonora del grande rock.

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