“…La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. E Dio disse: ‘Sia la luce!’. E la luce fu…”

Non è dato sapere se proprio da qui, dal libro della Genesi, sia partito Donald J. Trump, 45esimo presidente degli Stati Uniti, per stilare il suo discorso inaugurale. Ma possibilissimo è che così sia. E va subito aggiunto che, se che così fosse, non si tratterebbe, per Trump, che d’un modestissimo upgrade in materia di megalomania narcisistica. Non fu lui, dopotutto, a definire senz’ombra d’ironia The Art of the Deal, la prima delle sue numerose e mitizzanti autobiografie, “il più grande libro mai scritto dopo la Bibbia”?

Quale che sia stata l’originaria ispirazione, un fatto è comunque certo. Come già aveva fatto a Cleveland nel suo “apocalittico” discorso d’accettazione della candidatura repubblicana – quello del “I alone can fix it”, io solo posso rimettere le cose a posto – Trump ha presentato se stesso al Paese come il più classico degli uomini della Provvidenza. Erano le tenebre e venne la luce. Tutto era, prima di lui, oscurità, dolore, paura e sangue. E tutto, con lui tornerà a rifulgere.

L’America che, con una  eloquenza di grana assai grossa, Trump ha descritto nel suo discorso è, o meglio, era prima che lui calasse come un deus ex machina sulla scena, un Paese perduto; anzi, un paese mai nato, nel quale un popolo privato d’ogni voce da una élite avida e corrotta (quel mostruoso ma assai generico leviatano che, buono per tutti gli usi, viene chiamato establishment), va sopravvivendo, privato d’ogni sogno e d’ogni speranza, in panorami d’economica e umana devastazione. Fabbriche chiuse che s’ergono nel deserto come rugginose tombe, confini violati da masse di malintenzionati clandestini, città in preda alla violenza di gang e bande criminali, madri in lutto e figli morti. “Questa carneficina americana finisce qui – ha detto Trump in quello che molti hanno considerato l’arco di volta dell’intero discorso – e finisce adesso”.

Carneficina? Sebbene vi siano fette d’America dove davvero regna una notte non lontana da quella cupamente invocata dal neo-presidente – e sebbene davvero la democrazia americana sia (da tempo o, più probabilmente, da sempre) limitata e corrotta dallo strapotere di élite economiche e politiche – va da sé che tanto il “popolo” al quale Trump (il più impopolare neo-presidente della storia Usa) intende oggi riconsegnare il potere, quanto il paese in rovina che Trump s’appresta a redimere (come non si sa, ma si sa che sarà “qui e ora”), non sono che molto sbrindellate metafore, opache e assai mediocri invenzioni atte soltanto a far meglio rifulgere i bagliori d’una falsa redenzione.

Va da sé, anche, che del tutto menzognere o, nella più benevola delle ipotesi, fuorvianti, sono le millantate cause di tante macerie (secondo Trump l’America s’è svenata – senza nulla ricevere in cambio, anzi, ricevendo in cambio soltanto la pugnalata d’una concorrenza sleale – per difendere e far crescere alleati infidi ed ingrati). E va da sé, infine, che come tutti gli “uomini della Provvidenza” d’ogni colore e latitudine, il presidente Donald Trump coltiva con assoluta sfrontatezza, due essenziali e interconnesse virtù: la menzogna, per l’appunto, e il ridicolo, immancabili poli d’una tragicommedia che, nel mondo, già ha conosciuto e continua a conoscere orride rappresentazioni.

Per quanto sempre alfiere di più o meno immani catastrofi, ogni uomo della Provvidenza è infatti, proprio perché tale si dichiara, intrinsecamente ridicolo. E per la medesima ragione mente. Mente ed è condannato, per sostenere l’originale menzogna, a continuare a mentire. Di questa nefasta specie politica, Donald Trump è – come il suo discorso inaugurale e tutta la sua carriera politica dimostrano – una variante particolarmente prolifica. E particolarmente ridicola.

Basta, per questo, esaminare la composizione del governo da lui assemblato per “restituire il potere al popolo”: una combriccola di miliardari, generali e teorici della cosiddetta alt-right, la “destra alternativa” razzista e xenofoba, che riflette tutte le sfumature, non solo d’una parte, ma della parte peggiore dell’“establishment” di cui Trump pretende d’esser la nemesi.

E, non dovesse questo esser sufficiente, si potrebbero esaminare – a testimonianza di quanto la menzogna e il ridicolo siano elementi integranti e permanenti, quotidiani in pratica, del trumpismo – le rabbiose (e ridicolmente ovvie) menzogne con le quali il neo-presidente ha reagito ieri alle cronache che, in base a inequivocabili immagini, illustravano come la partecipazione popolare alla sua cerimonia inaugurale non fosse che una frazione di quella che aveva accompagnato Obama nel 2009.

Il punto è che, da venerdì scorso, queste menzogne e questo ridicolo siedono nell’Ufficio Ovale. Ma di questo – o di quella che, parafrasando Theodore Dreiser, possiamo chiamare “una tragicommedia americana” – scriverò più in dettaglio nel prossimo post.

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