Da tre anni a collezionare sold out nei teatri italiani, Qualcuno volò sul nido del cuculo diretto da Alessandro Gassman ha totalizzato oltre 150 repliche. Adesso è tornato al Teatro Eliseo di Roma proseguendo una tournée che ha ancora molto da dire in quanto a tappe. Quello letterario di Gassman è un bel vizio che sfoga spesso sul palcoscenico. Speriamo non lo perda mai. Se ultimamente si avventura tra poesia e prosa di Alda Merini con l’altra sua piéce La pazza della porta accanto, anch’essa ancora in scena, grazie al romanzo di Ken Kesey edito nel 1962 torna ad affrontare le quattro mura di un manicomio compiendo una piccola rivoluzione copernicana rispetto all’originale testo teatrale sul Cuculo, quello di Dale Wasserman, in scena per la prima volta nel ’71 a Broadway.

La versione messa a punto per Gassman sposta l’ambientazione al 1982, un anno che l’Italia ricorda con gioia, ma resta nella collocazione geografica il cambiamento che segna questo spettacolo: Aversa, Caserta. Dario è un mariuolo dalla lingua molto sciolta, non ha mai avuto voglia di lavorare e si ritrova in un istituto psichiatrico fingendosi pazzo pur di evitare il carcere. Incontrerà un gruppo di malati di mente pasticcioni e impauriti e li renderà amici affiatati. La storia la conosciamo tutti. Qui però l’enorme indiano protagonista di uno dei più struggenti finali di Hollywood diventa Ramon, un ragazzone sudamericano interpretato da Gilberto Gliozzi. Le mura grigie della scena nella versione di Gassman appaiono come il letto di un fiume pieno di tic ed emarginazione. È affidato proprio al silenzioso Ramon l’intermezzo del sogno. È lui il protagonista degli unici momenti di colore scenico. Intorno al corpo più minaccioso si avvolgono i sentimenti più fragili, l’elemento del sogno e le visioni più eteree. Follia, prigionia, libertà e paura vengono scandagliate da Gassman anche con il linguaggio della commedia che gli è atavicamente congeniale ma affonda i denti in territori amari dell’umano. Emergono allora i temi della solitudine, l’isolamento per la diversità, la paura della condivisione e la sopraffazione della sanità dipinta da un candore finto, realistico unicamente nell’abito della suora carceriera. La mistura tra riso e commozione non stride mai, anzi appassiona e riaccende la fiamma per il testo, esaltandone significato e importanza.

Tutto il cast in perenne movimento dall’inizio alla fine fonde alla parola il gesto, anzi il tic, con organicità e precisione di un orologio svizzero. Personaggi-carattere che diventano quasi maschere, ingranaggi di uno spettacolo del quale pur conoscendo perfettamente la storia non ci si stanca. Ci si ritrova invece a caldeggiare per Dario e la sua sconclusionata truppa contro le angherie della capo infermiera, una Elisabetta Valgoi acida e snervante. Non sarebbe onesto non ammettere che i fantasmi delle interpretazioni di Nicholson, Fletcher, De Vito e di tutto il cast del film diretto da Milos Forman pesano sulle spalle soprattutto del protagonista. Sono croci e delizie dell’immaginario collettivo. Ma nel mondo di Gassman il gioco di scena è molto più corale, di squadra. Le tecniche cinematografiche di carrelli e primi piani s’infrangono, così la scena è quasi sempre popolata da tutti gli attori. Però il regista mostra il cinema nel sangue, come spesso fa in teatro, utilizzando il palcoscenico come una grande, modulare macchina da presa e le proiezioni per creare piacevoli illusioni visive. Tiene tenacemente cast e tutti gli ingranaggi in un’organizzazione perfetta: il Cuculo vola anche dal basso e abbraccia più caldamente lo spettatore in sala, diversamente dal film, seppur raccontando la stessa storia. In questo processo il protagonista viene rivisto e impiantato nel suo nuovo habitat mediterraneo. Dario ha infatti faccia e furberia partenopea di Daniele Russo, non icona/istrione come dall’immaginario di cui sopra, ma quasi moderno Puc, con un pizzico di bullismo. In più le musiche originali di Pivio & Aldo De Scalzi, pungenti e trascinanti, amalgamano con cura ogni scena dell’adattamento campano di Giovanni Lombardo Radice e Maurizio de Giovanni.

Due ore e quaranta di durata potrebbero sembrare troppe sulla carta rispetto alla storia, ma fungono da calibrata esagerazione per trasmettere al pubblico il giusto senso del tempo in una prigione dell’anima come l’ospedale psichiatrico di Aversa. Anzi, come tutti gli ospedali psichiatrici del mondo. Lo spettacolo resterà a Roma fino al 29 gennaio, poi verrà messo in scena in diverse città da Caserta a Gallarate, da Brescia a Cagliari, culminando ad aprile a Cesena. E in tempi da social è Gassman stesso dal suo account Twitter a fornirci dettagliatamente ogni data.

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