Lo so che occuparsi di politica è una fatica, che a vedere Giuliano Poletti ancora ministro dopo un referendum che – come gradito effetto collaterale – doveva abbattere il governo Renzi si ha l’ennesima conferma che siamo nel Paese del Gattopardo.

E so anche che molti di noi non hanno davvero più la forza di indignarsi per le parole perché l’indignazione è già consumata dai fatti, da governi che pensano ai pensionati invece che ai giovani, che liberalizzano i voucher togliendo persino la prospettiva di un contratto a tempo indeterminato. Indebolire l’articolo 18 era anche lecito, ma solo in una prospettiva di contratto unico per tutti. Invece la precarietà è rimasta e il governo ha speso miliardi per fingere un boom dell’occupazione pagato carissimo dai contribuenti: 60.000 euro per ogni nuovo posto di lavoro aggiuntivo rispetto all’anno precedente, secondo i calcoli della Cgil.

Lo so che c’è Natale e che molti di voi hanno di meglio da fare. Però Giuliano Poletti non può rimanere ministro del Lavoro di questo Paese. Se ne deve andare. Non domani, oggi. E se non lo caccia Matteo Renzi, perché deve simulare distanza da questo esecutivo teleguidato, o il nuovo premier Paolo Gentiloni, dobbiamo farlo sloggiare noi.

Smettiamola con questa idea che tocca sempre ad altri prendere l’iniziativa. Nel caso ve la foste persa, vi ricordo che cosa ha detto Giuliano Poletti ieri: “Bisogna correggere l’opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei pistola. Permettetemi di contestare questa tesi”. E poi ha argomentato, da par suo, in questo modo: “Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”.

Si è giustificato, ha detto di essersi espresso male. Io non credo. Si è espresso benissimo, con tutta la chiarezza che il suo livello culturale e il suo curriculum gli consentono. Ha detto quello che pensa. “Esprimersi male”, in casa Poletti, significa evitare l’ipocrisia di mascherare le proprie idee. Il ministro, invece, si è “espresso male” perché pensa male. E chi pensa come lui non può e non deve fare il ministro in questo Paese. Chi è convinto che i ragazzi che emigrano – per fare i ricercatori o i pizzaioli – lo facciano perché sono inquieti, troppo ambiziosi o irresponsabili non ha il diritto di incidere sulle politiche di occupazione in Italia.

In assenza di elezioni competitive, non ci sono molti modi per fermare Poletti o il partito che lo appoggia, il Pd. L’unico è farsi sentire. Già in altre fasi della storia repubblicana forti ondate di indignazione hanno spinto la politica a correggersi, penso per esempio al decreto “salvaladri” e al popolo dei Fax. Siamo pur sempre una democrazia, se centinaia di migliaia o milioni di persone considerano (con buoni argomenti) Poletti inadeguato a fare il ministro, qualcuno dovrà ascoltarci.

Scrivetelo nei vostri profili Faceboook, su Twitter: #PolettiVattene.
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Bisogna insistere. Finché Poletti non si dimette.

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