La grande stampa USA favorisce sfacciatamente Hillary Clinton? Donald Trump non ha dubbi. La risposta è un sì vasto come il mare. Da settimane il tycoon repubblicano ripete lo stesso mantra, che entusiasma e galvanizza le truppe del suo elettorato. In un tweet alle 7.36 del mattino del 16 ottobre Trump scriveva: “I media stanno manipolando le elezioni!”. Alle 8.31 Trump tornava sull’argomento: “Le elezioni sono manipolate dai media, in uno sforzo coordinato con la campagna di Clinton, ciò che fa diventare notizie cose mai successe”. Quattro ore più tardi il tycoon afferrava ancora il cellulare: “Le elezioni sono assolutamente manipolate dai media disonesti e distorti che favoriscono la disonesta Hillary – TRISTE”.

Questa ripetizione maniacale è diventata nelle ultime settimane un’abitudine, ogni volta che Trump è apparso in pubblico. E il concetto è stato fatto proprio dai vari “surrogati” della campagna. “C’è un ovvio pregiudizio da parte dei media”, ha spiegato Mike Pence, il candidato vice presidente. Secondo Rudy Giuliani, “tra l’80 e l’85 per cento della stampa è contro Trump”. E Newt Gingrich ha spiegato che la stampa fa di tutto “per sopprimere le cattive notizie su Hillary e massimizzare quelle relative a Trump”.

Mai come quest’anno, dunque, la stampa USA si è schierata con un candidato; anzi, con una candidata

In altre parole, si chiedono i repubblicani: che fine hanno fatto le notizie sulle 33mila mail cancellate dal server privato di Hillary Clinton quand’era Segretario di stato? Che tipo di copertura viene data alle mail hackerate dei democratici e diffuse da Wikileaks? Perché nessuno parla di quello che Clinton ha detto durante i suoi pagatissimi discorsi davanti alla gente di Wall Street? Cose come: “Grazie alla ricchezza mia e di mio marito, sono lontana dalle difficoltà della classe media”. Ancora: perché nessuno paragona le posizioni pubbliche della candidata – tasse più alte per i ricchi, regolamentazioni più dure per Wall Street – con quello che Clinton diceva in privato davanti ai boss di Wall Street: “Quelli che conoscono meglio la vostra industria, sono quelli che ci lavorano”.

In altre parole: favoritismi, pregiudizi, aperta manipolazione da parte dei media starebbero falsando la campagna a un punto tale che Trump ha annunciato di non sapere se “riconoscerà l’esito elettorale”. In realtà, Trump e (alcuni) dei suoi si spingono anche più in là. Ci sarebbero brogli ai seggi, ci sarebbe un sistema seriamente manipolato dai democratici. “Volete farmi credere che le elezioni a Philadelphia e Chicago siano regolari?” si è chiesto Giuliani, il più polemico di tutti, suggerendo che l’8 novembre i democratici porteranno in pullman a Philadelphia migliaia di persone per votare in vece dei morti.

Va detto che, finora, tutte queste asserzioni non sono state sostenute da alcuna prova – anche perché in molti Stati i seggi non sono pronti e l’early voting si svolge soprattutto per posta. Tutti gli studi concordano poi su una cosa: i brogli elettorali sono, negli Stati Uniti, un fenomeno praticamente inesistente. Diverso è invece il caso del presunto “pregiudizio liberal” dei media. È infatti vero che quest’anno tutta la grande stampa, e buona parte di quella locale, hanno assunto una posizione di aperto sostegno a Clinton rispetto a Trump.

Per il Shorenstein Center (Harvard) la stampa ha quanto meno “sottostimato” la questione delle email

Vediamo per esempio gli endorsement, gli appoggi pubblici che tradizionalmente giornali e riviste offrono alla vigilia di un’elezione. Sinora, 160 quotidiani si sono dichiarati per Clinton. Solo tre per Trump. Tra gli endorsement più significativi, per la candidata, c’è stato quello del Dallas Morning News, che non sosteneva un democratico da Franklyn Delano Roosevelt nel 1944; quello del Cincinnati Enquirer, la cui ultima scelta di un democratico risale a Woodrow Wilson nel 1916; e quello dell’Arizona Republic, che in 126 anni di storia non aveva mai fatto dichiarazione di voto per un progressista. Prevedibile che il liberal New York Times irrobustisse l’endorsement a Clinton con un pezzo dal titolo: “Perché Donald Trump non dovrebbe essere presidente”. Molto meno prevedibile che USA Today, che in 34 anni di storia non ha mai preso posizione, abbia invece questa volta pubblicato un pezzo chiedendo ai suoi lettori di “non votare per Donald Trump”

Parlando di numeri, sono poi interessanti quelli pubblicati dal “Center for Public Integrity” (CPI). Lo scorso 17 ottobre il CPI ha fatto uscire un rapporto in cui mostra che giornalisti, opinionisti, producer televisivi e radiofonici, hanno contribuito a questa campagna con 396mila dollari. Ebbene, il 96 per cento della somma totale è finita nelle casse di Hillary Clinton. Veniamo ad altri numeri, quelli riportati dal “Shorenstein Center”: sulla base di un’analisi di decine di media USA il centro di Harvard ha concluso che Trump ha ottenuto almeno un 75 per cento di copertura stampa negativa, contro il 56 per cento di Clinton.

Scrive ancora il “Shorenstein Center”: “In modo significativo, una dimensione chiave della questione email di Clinton è stata di rado affrontata. Che cosa dovremmo pensare di quelle email? Quanto sono importanti nel quadro più ampio della scelta di un presidente? E che tipo di trasgressione rappresentano?” Dati alla mano, lo “Shorenstein Center”, un’istituzione rigorosamente indipendente, conclude quello che i repubblicani di Trump urlano da tempo: e cioè che la stampa ha quanto meno “sottostimato” la questione delle email. Non ne ha davvero parlato. E, quando ne ha parlato, non ha evidenziato quanto quelle email ci dicono del “carattere” di Hillary Clinton.

Trump ha sbaragliato gli altri repubblicani a una copertura di stampa che ha esaltato le sue provocazioni

Ci sono poi episodi che hanno letteralmente incendiato siti e profili social dei conservatori USA. Lo scorso maggio una giornalista di NBC, Kristen Welker, è stata beccata mentre informava Jen Palmieri, la portavoce di Hillary Clinton, delle domande che le avrebbe fatto. “Sto per chiederti di Flint”, ha sussurrato a Palmieri, immaginando di non essere in onda. Poi, allo scattare dell’on, è partita: “Vorrei chiederti della questione di Flint…” Altro fatto, tra i tanti, che ha alimentato le teorie del complotto è la cena cui alcuni giornalisti – di ABC, CBS, CNN, MSNBC e NBC – hanno partecipato alla vigilia dell’annuncio della candidatura di Clinton a casa di Joel Benenson, il suo stratega in capo. “Si trattava di quei giornalisti che, presumibilmente, avrebbero poi coperto il day by day della campagna”, informa Breitbart.com, una delle bibbie online dei conservatori.

In conclusione. I media americani hanno preso decisamente posizione a favore di Hillary Clinton? La risposta è sì. Difficilmente, nella storia recente delle presidenziali, la stampa USA è parsa più compatta nell’appoggio a un candidato. Questa conclusione dovrebbe però portare a una seconda domanda. Il pregiudizio pro-Clinton dei media può essere attribuito a forme ampie e diffuse di collusione con la campagna democratica? E qui la risposta pare ancora una volta univoca. No. A parte episodi del tutto circoscritti, non ci sono prove di alcun disegno concertato tra la campagna Clinton e settori più o meno larghi della stampa USA.

Per spiegare la preferenza che i media USA assegnano a Clinton, ci si può rivolgere altrove. Per esempio a un dato: gran parte della stampa nazionale si concentra a New York e a Washington, e gran parte di quella locale nelle città grandi e piccole. I giornalisti, in altre parole, appartengono a quel tessuto di borghesia urbana con titolo di studio superiore che rappresenta il cuore dell’elettorato democratico. La cosa può tradursi in una scarsa capacità di raccontare le idee e le pulsioni del popolo di Trump. Può diventare pregiudizio che impedisce di valutare le ragioni della forza di Trump. Ma, in sé, non è motivo per accreditare la tesi della collusione o della “cooperazione” tra Clinton e i giornalisti.

Le “bravate” del miliardario risultano enormemente più interessanti che le mail su Benghasi o le opinioni di Clinton su Wall Street

C’è poi un altro elemento importante. Quello di cui oggi Trump si lamenta è quello di cui, sino a qualche mese fa, si è servito. Senza un’organizzazione sul campo, senza particolari finanziamenti, Trump ha sbaragliato gli altri repubblicani alle primarie grazie a una copertura di stampa che ha esaltato le sue provocazioni, rilanciato l’immagine di “uomo del destino”, lasciato da parte ogni verifica dei programmi in nome del “personaggio Trump”. Il 78 per cento della copertura dedicata da CNN alle primarie repubblicane ha riguardato Trump. Il tycoon nel 2015 ha ottenuto 23 volte il tempo TV ottenuto da Bernie Sanders. Tra maggio e dicembre 2015 Fox News ha mandato in onda più di 24 ore di interviste a Trump. La cosa non ha eguali nella storia dell’informazione americana, se si pensa che nel 2015 le news della sera di ABC, CBS e NBC hanno dedicato a Trump 327 minuti, contro i 157 guadagnati da Barack Obama per la sua rielezione nel 2012.

Questa macchina, la macchina di un’informazione che privilegia il personaggio sui programmi, che corre dietro allo scandalo e tralascia approfondimenti e spiegazioni, continua a girare ancora oggi. Solo che la “novità” del politico Trump si è dissolta; il candidato continua ad alimentare la sua corsa con una serie di bordate, accuse, colpi di scena, teorie complottistiche, dettagli personali, bravate sessuali che alimentano il circo mediatico; e le “bravate” di Trump risultano, per questo circo mediatico, enormemente più interessanti che le mail su Benghasi o le opinioni di Clinton su Wall Street. Mai come quest’anno, dunque, la stampa USA si è schierata con un candidato; anzi, con una candidata. Mai come quest’anno, però, l’altro candidato è stato il prodotto e il riflesso di questa stessa stampa.

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