Una cattedrale nel deserto. Peggio: una cattedrale che unisce due intere regioni prive d’infrastrutture decenti. Con costi altissimi sia di costruzione che di gestione, poca ricaduta occupazionale, e che alla fine sarebbe anche scarsamente trafficata. È quello che rischia di essere il ponte sullo Stretto, l’eterno sogno promesso da trent’anni di governi, recentemente rilanciato anche da Matteo Renzi. “Ma quale ponte? Da noi le autostrade chiudono per le frane”, si è sfogato con ilfattoquotidiano.it il sindaco di Messina, Renato Accorinti. E infatti basta dare un’occhiata alle rete viaria di Sicilia e Calabria, le due regioni che il ponte dovrebbe collegare, per rendersi conto della situazione dei collegamenti nell’estremo Sud Italia. “Ci sono decine di opere che hanno bisogno di manutenzione, strade che versano in condizioni disastrose”, dice Marco Ponti, professore ordinario di Economia dei Trasporti al Politecnico di Milano.

Sicilia e Calabria: il disastro delle infrastrutture – “Tra l’altro– continua il docente – queste piccole opere di manutenzione creerebbero lavoro. Tanto lavoro. Per definizione le piccole opere creano maggior occupazione per ogni euro speso, al contrario del ponte: vorrei tanto parlare con chi ha stimato in centomila i posti di lavoro generati dalla sua costruzione”. Un rapido sguardo alle carte geografiche di Sicilia e Calabria certifica che nelle due Regioni persino le infrastrutture normali versano in condizioni disastrose: dalle carreggiate della Salerno-Reggio Calabria che si riempiono di fango ad ogni temporale, alla pericolosissima statale Jonica, dalle strade che crollano periodicamente sulle Madonie, isolando i comuni, fino all’autostrada Messina-Catania, franata all’altezza di Letojanni. C’è poi la statale per Sciacca, ridotta quasi ovunque e da anni a corsia unica, fino a quello che è diventato il simbolo recente dello stato di salute della viabilità al Sud: il viadotto Himera, sull’autostrada Palermo-Catania, crollato nell’aprile 2015, abbattuto e ancora mai ricostruito. “Quella è una vera follia – commenta sempre Ponti – Sa che il Genio militare potrebbe sistemare quella strada in una settimana con un ponte d’acciaio? Solo che per legge non lo possono fare. Non possono fare concorrenza al mercato, ai privati. E dunque investiamo sempre nel cemento, facendo finta di non sapere che in alcune zone il cemento è appannaggio almeno in parte di una certa organizzazione criminale. Ma chissà qualcuno verrà a dirci che creano lavoro anche loro”.

La manutenzione delle strade? “Creerebbe più lavoro del ponte” – Al contrario secondo Ponti bisognerebbe investire in tecnologia. “È la tecnologia che crea sviluppo e fa evolvere il Sud non isolandolo dal resto d’Europa – spiega – Sono le piccole opere che hanno maggior ricaduta occupazionale, le opere di manutenzione della rete viaria che è in cattivissimo stato”. Perché non si fanno? “Perché non si vedono, non fanno notizia, non sono buone per fare campagna elettorale. E dunque si parla di ponte e dei centomila posti di lavoro”.

Il traffico sul ponte? Quasi inesistente – Ma il problema non è soltanto attuale, e cioè legato alla cattiva condizione delle infrastrutture di Sicilia e Calabria. Al contrario il ponte rischia di essere un enorme flop anche in futuro, in caso di costruzione, per almeno due motivi: l’effettivo utilizzo e il fattore economico. “A nessuno interessa quanta gente passerà su quel ponte: a nessuno”, dice Ponti, autore in passato di uno studio che analizzava l’effettivo utilizzo del mega viadotto sullo Stretto. Quattro i fattori analizzati dal professore in relazione al possibile traffico sul ponte: i passeggeri e le merci rispettivamente di lunga e breve distanza. “Nel primo caso – spiega – è chiaro che chi deve andare a Roma o a Milano e persino a Napoli, prende l’aereo, più veloce ma ormai anche più economico. Le due conurbazioni maggiori interessate dal coprire una distanza breve sono invece Catania-Messina e Messina-Reggio Calabria: per loro però il Ponte è scomodo, perché è molto alto, bisogna fare le rampe, salire in quota, riscendere. Insomma alla fine anche in questo caso è più comodo il traghetto”. Stessa storia anche quando a spostarsi devono essere le merci. “È noto che per spostare merci a lunga distanza la nave sia l’alternativa migliore: costa poco e inquina pochissimo. Per quanto riguarda la breve distanza, bisogna invece considerare che Calabria e Sicilia hanno produzioni molto affini: per quale motivo dovrebbero scambiarsele?”.

Un progetto a perdere – C’è poi il capitolo dei costi di costruzione e di gestione. Il bando originario era stato aggiudicato a 4 miliardi di euro, fondi coperti al 40 percento dallo Stato e al 60 percento dai privati. “A parte il fatto che oggi quel contratto è in contrasto col nuovo codice degli appalti, bisogna considerare che quei numeri nel frattempo sono lievitati, toccando quota 8 miliardi e mezzo: cifra che oggi mi sembra anche troppo esigua”, dice il professor Domenico Marino, docente di politica economica dell’Università di Reggio Calabria, autore di un saggio che analizza i costi del ponte. “Si parla di cinesi, arabi, americani: ma imprenditori interessati a mettere i soldi non ce ne sono. Sanno benissimo che si tratta di un’opera che produrrà utile dopo almeno 30 anni dalla sua inaugurazione, ma c’è chi parla anche di 40, e per allora non si sarà neanche ripagata: chi può essere interessato a un investimento simile?”. E infatti per camuffare il project financing ecco l’escamotage: a ponte ultimato le Ferrovie dovranno pagare non un abbonamento sulla base del numero treni che lo attraversano, ma un contributo standard da 100 milioni di euro all’anno. “Ma le Ferrovie di chi sono? Sempre dello Stato: è un project financing truccato. Senza considerare che i treni su quel ponte non potranno neppure viaggiare, anche se doveva costare un miliardo in più proprio per renderlo attraversabile dai vagoni”, continua Marino che cita l’esempio del ponte di Akashi in Giappone, il viadotto sospeso più lungo del mondo. “Ha una luce massima di 1.900 metri, cioè circa la metà di quello sullo Stretto: e su quel ponte i giapponesi non fanno andare i treni. Voglio dire: i giapponesi qualcosa di tecnologia sapranno, o siamo più bravi noi?”, sorride amaro Marino.

Quando i soldi voleva metterceli la mafia canadese – Lo utilizzeranno in pochissimi, costerà una cifra esorbitante e gestirlo non converrà a nessuno: ma allora perché da 30 anni governi di ogni colore tornano alla carica per costruire questo benedetto ponte? “Per motivi politici, affaristici, economici: sono diversi gli interessi in campo, nonostante la qualità della proposta sia scadente”, dice Guido Signorino, professore d’economia all’Università di Messina e assessore della giunta Accorinti. “In questo momento comunque la costruzione del ponte è fuori da ogni orizzonte praticabile”, continua l’assessore, che poi cita l’unico imprenditore veramente vicino a finanziarne la costruzione in passato: Giuseppe “Joseph” Zappia, ingegnere italo canadese pronto a mettere sul piatto quattro miliardi di dollari nei primi anni duemila. Solo che nel 2005 la procura di Roma lo fece arrestare per associazione a delinquere, accusandolo di essere il referente di Vito Rizzuto, potente boss mafioso di Montreal. Intercettato mentre parlava con un suo collaboratore, Zappia si fregava le mani: “Se tutto va bene io farò il ponte di Messina e ti dico un’altra cosa: è che c’è da un lato la mafia, la Sicilia. Da quell’altro posto c’è la ’ndrangheta”. In mezzo vorrebbero farci un ponte.

Twitter: @pipitone87

Articolo Precedente

Carlo De Benedetti cambia l’agenda di Renzi, dalla nazionalizzazione delle banche alla patrimoniale progressiva

next
Articolo Successivo

Trasporto container, il crac di Hanjin Shipping svela la fragilità del settore. “È come il fallimento Lehman Brothers”

next