A una settimana dalla catastrofe paventata del Brexit è consentito a un fervente europeista dire “by-by Regno Unito”? Per ragioni del tutto opposte a quelle di demagoghi sfasciacarrozze quali il macchiettistico Farage e compagnia eurofobica.

Diciamolo francamente: l’Unione europea si trova a pochi centimetri dal baratro a causa di una vergognosa involuzione iniziata – grosso modo – nel settembre 2008. Ossia la crisi finanziaria che arrivava dall’Atlantico, affrontata con la tacita alleanza tra burocrati e banchieri e declinata nell’accantonamento totale di un prezioso patrimonio democratico-solidale; barattato con le scempiaggini delle ricette made in Fmi (de-regolazioni/privatizzazioni) e le pratiche punitive e anti-popolari (austerity a senso unico, come decimazione del ceto medio).

Sicché, per proseguire nella follia di applicare il cosiddetto “modello Wall Street” (mentre il concreto muro di Wall Street crollava con un rimbombo pari a quello di Berlino nel 1989), questa Europa pensava bene di cancellare la sua componente democratico/new-dealista, per lasciare in campo solo nomenklature contrapposte alle strumentalizzazioni ottuse e irresponsabili degli incendiari, che cavalcano i disagi crescenti di popoli trattati come carne da macello (da tali nomenclature). Cioè il calcolo follemente suicida di establishment che pensavano di tacitare una rabbia montante con un po’ di zucchero comunicazionale; poi tragicamente inciampati sulla propria inettitudine nel governare un fenomeno epocale, come le migrazioni di popoli in atto, con il repertorio di palliativi con cui sino ad ora hanno tenuto a bada i propri elettorati.

Stando così le cose, molto meglio uno choc che riporti alla realtà questi eurocrati asserragliati nei loro palazzi tra le nuvole. Per cui l’uscita inglese dalla compagine potrebbe persino svolgere una funzione benefica. Certo, viene meno un mercato di un sessanta milioni di consumatori. E questa è probabilmente la più lancinante preoccupazione che affligge i finanzieri di Bruxelles. Per il resto i britannici in Europa sono sempre stati con un piede dentro e uno fuori. Un po’ per risibili e anacronistici rigurgiti imperiali, molto in quanto ormai da tempo quinta colonna degli Stati Uniti (che l’esperimento europeo hanno sempre guardato con sospetto).

Di fatto il Regno Unito gode di una posizione speciale, ulteriormente rinforzata dalle concessioni ottenute dal sensale David Cameron il febbraio scorso: limiti alla libera circolazione dei cittadini europei, sospensione per quattro anni all’accesso ai benefici dello stato sociale ai residenti non britannici, riconoscimento che il mercato unico è multi-valutario, rescissione di trattati che prevedano maggiori livelli di integrazione. Insomma, una condizione più da pensionati schizzinosi che non da membri della stessa famiglia. Intanto l’Inghilterra fino ad oggi ha ricavato tutti i vantaggi di contiguità quale gate che gestisce il passaggio delle transazioni monetarie verso il più grande mercato mondiale, quale quello europeo; attrae big players continentali offrendo condizioni fiscali di favore. Come ci ha fatto chiaramente vedere la Fiat trasformata in Fca da Marchionne e traslocata da Torino a Londra.

Questo per dire che un possibile Brexit avrebbe effetti disastrosi per i secessionisti e magari persino impatti benefici per quanti rimangono. Ammesso che si colga l’opportunità per una revisione radicale del campo politico europeo. Partendo dalla considerazione che le originarie motivazioni federative (vedi Ventotene) si sono fatte sempre più stringenti: nel mondo in cui si impongono le dimensioni continentali e ormai gli antichi Stati-nazione pesano quanto un bruscolino. Ma che tali motivazioni perdono ogni capacità attrattiva se smarriscono, per un malinteso vassallaggio psicologico nei confronti di un paleo thatcherismo-blairismo, l’istanza democratica. Sarebbe auspicabile che gli inglesi, mentre tolgono il disturbo, si portassero via pure le paccottiglie ideologiche imposte dal duo ineffabile Thatcher-Blair.

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