L’intervista di Bruno Vespa a Salvo Riina non è giornalismo. Non userò aggettivi in questo post. Lo spettacolo in onda la sera del 6 aprile 2016 nel salotto di Porta a Porta, è propaganda (per il libro dell’erede del boss di Cosa Nostra). Chi l’ha vista su Raiuno, servizio pubblico, ore 23.35 e fortunatamente ben oltre la “fascia protetta”, un minuto dopo la sua fine non sa nulla di più di un minuto prima, né sulla mafia né sulla famiglia Riina. Che non è – come appariva in quel filmato – una famiglia come migliaia di tante altre, di quelle pronte a scendere in piazza per un “family day”.

Col boss - La puntata di ieri sera - Ansa

Quell’intervista rimandava nelle case sintonizzate sulla Rai, l’immagine distorta di una famiglia da mezzo secolo ai vertici di Cosa nostra, e impone di ricordare le regole del giornalismo. Lezione uno: fare domande. Lezione due: non appiattirsi mai sulle fonti. Lezione tre: mai mischiare propaganda e informazione.

Lezioni elementari di giornalismo. Roba da giovani praticanti, regole che si studiano all’esame di abilitazione alla professione. Ma nessuna di queste rispettate da Bruno Vespa in occasione dell’intervista a Riina junior.

A me, di mestiere cronista, siciliano e antimafioso per scelta civile, non indigna che Vespa o la Rai intervisti Riina junior ma che lo faccia come lo ha fatto. “Gran professionista della comunicazione” ma appiattito davanti a chiunque gli parli davanti. Senza domande dirette. Spettacolo senza memoria e senza aiuto per chi ti sta a sentire, ascoltare, leggere. Interviste senza contraltare.

Cosa fare? Una risposta sarebbe stata spegnere la Tv o cambiare canale. O non pagare il canone, per protesta con il servizio pubblico che non è questo e se diventa questo rischia di essere “a uso privato”: chi va in onda lo usa come vuole. Giornalismo che nega se stesso e rifiuta la responsabilità pubblica del suo ruolo. E poi: davanti a quella telecamera non c’era un politico o il padre di un killer per noia (anche loro con diritto di parola ma con domande vere) ma un mafioso che esalta il padre autore delle stragi anni 90 e di mezzo secolo di stragi. Giornalismo “senza responsabilità”, appunto.

Altro consiglio. Leggere, rileggere, guardare e riguardare altri esempi di racconto e di interviste a boss mafiosi. Giornalismo puro. E poi fare i paragoni perché rischiamo tutti di dimenticare cosa deve essere il giornalismo.

Primo esempio: anni 60, Giuseppe Fava per il ” Tempo illustrato”, intervista il boss di Agrigento Genco Russo. Il vecchio boss diceva di “essere in pensione”, fumava la pipa e affidò a Fava un memoriale che iniziava così: “Mi chiamo Giuseppe Genco Russo e sono stato il capo della mafia…”. Nella quale lui, vecchio mafioso (unico in questa lunga storia morto nel letto di casa sua) rivendicava tutta la sua vita, senza negare quel che era.

Secondo esempio: anni 70 e 80, Joe Marrazzo (tg2 dossier) intervista Michele Greco, Momo Piromalli e fa informazione facendo parlare tutti e raccontando anche le sfumature, senza omissioni.

Terzo esempio: Enzo Biagi, anni 90, intervista Luciano Liggio.

La differenza con lo spettacolo in onda ora a Porta a Porta? Al di qua di telecamera e taccuino c’erano giornalisti. Cioè professionisti chiamati a far domande e ricordare i precedenti. Non è questione di schiena dritta ma di professione e di distinguere show, business, propaganda e giornalismo. Perché il problema per un cronista non è che faccia parlare un mafioso, ma – se lo fa – gli ponga almeno tutte le domande.

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