Pochi dubbi davvero sono ammissibili sulla portata storica della visita del presidente statunitense Obama a L’Avana in questi giorni. I commentatori appaiono tuttavia divisi, al riguardo, grosso modo in due scuole di pensiero.

I primi sono pronti a scommettere che alla fine Cuba si sia arresa, o che stia per farlo, alle sirene del capitalismo. Si tratta di un aggregato alquanto eterogeneo: tra di essi troviamo professorini sedicenti di sinistra che vorrebbero dare lezioni di socialismo a Fidel, impenitenti assertori delle virtù neoliberali, finanche esperti di geopolitica o sedicenti tali. Più ovviamente la redazione di Repubblica al gran completo, capeggiata dal direttore Calabresi e dal gatekeeper degli esteri Ciai, i quali sembrano attribuire un’importanza esagerata all’abbigliamento di Raul.

La seconda scuola di pensiero, nella quale milita modestamente il sottoscritto, coglie invece nell’evento la circostanza che si sia finalmente fatta strada nelle menti non sempre lucide dei presidenti statunitensi e dei loro consigliori (e da questo punto di vista è inutile ricordare come Obama sia incommensurabilmente più intelligente dei suoi predecessori e non mi riferisco solo al demente Bush junior) una verità semplice quanto potente: con Cuba e il popolo cubano il bastone, sia sotto forma di tentativi di invasione (Baia dei Porci) che di terrorismo (Orlando Bosch e Luis Posada Carriles da sempre figli prediletti della Cia) che di blocco economico (tuttora sostanzialmente in atto) non serve. Meglio quindi fare buon viso a cattivo gioco e tentare la carta della penetrazione economica ed ideologica. Analoga convinzione si sta facendo del resto strada nella stessa comunità dei fuoriusciti cubani a Miami, dove le giovani generazioni anelano a un ricongiungimento con la madrepatria non dovuto solo a banali ragioni di mercato.

Questo quanto alle cause del riavvicinamento. Sui suoi effetti la diagnosi deve essere necessariamente più cauta e sfumata. Ma non ci sono a ben vedere indizi che, contrariamente agli auspici o ai timori di cui sopra, il popolo cubano sia disposto a svendere le proprie conquiste politiche e sociali in cambio di un piatto di lenticchie, anzi di hamburger non sempre o quasi mai di ottima qualità. Cinquanta e più anni di rivoluzione non sono certo passati invano. Cuba, data l’esistenza di una legislazione in materia particolarmente avanzata, si candida anzi a luogo di sperimentazione del controllo sugli investimenti privati in funzione di interessi e diritti inderogabili in materia sociale ed ambientale. Un modello da guardare con attenzione da parte di molti Paesi, non necessariamente solo “in via di sviluppo”.

In ultima analisi quindi la riapertura del dialogo con gli Stati Uniti è il risultato di una politica di resistenza inflessibile e senza compromessi condotta per oltre cinquant’anni dalla leadership cubana, che si conferma fonte di ispirazione ed esempio per quelle dei Paesi latino-americani, oggi alle prese con una crisi determinata in buona parte da insufficiente rigore sul piano dell’attuazione di un modello effettivamente rivoluzionario, della lotta per i diritti sociali e di quella alla criminalità e alla corruzione. Nulla del resto può far presagire l’abbandono da parte di Cuba del suo ruolo dirigente in seno al continente latinoamericano che ha raggiunto importanti risultati negli ultimi anni con il varo della Celac (Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici) e la riammissione della stessa Cuba all’interno dell’Organizzazione degli Stati americani, da cui era stata espulsa tanti anni fa per volontà degli Stati Uniti.

Limitandoci ai diretti protagonisti di questo straordinario riavvicinamento, esso sembra foriero di risultati positivi, sia per il popolo statunitense, al cui interno, specie fra i giovani, si rafforzano le tendenze di tipo apertamente socialista, come dimostrato dai successi elettorali di Bernie Sanders, sia per quello cubano, per le nuove possibilità di apertura e di scambio che scaturiscono dal dialogo. Quest’ultimo, lungi dal beneficiare gruppetti marginali come le Damas en blanco o i seguaci di Yoani Sanchez, si rivelerà positivo per il popolo cubano nel suo complesso.

Il bloqueo va eliminato totalmente e ci auguriamo che Obama abbia la forza e il tempo di farlo. In conclusione, per dirla con l’illustre cubanologo italiano Aldo Garziagodiamoci un evento che sembrava impossibile, sapendo che nel gioco degli scacchi è previsto anche il pareggio, non solo lo scacco matto per l’uno o per l’altro. Di sicuro è iniziata una nuova sfida tra le due sponde del Golfo della Florida. A L’Avana la festa continuerà il 25 marzo con il concerto dei Rolling Stones. Chissà se renderanno omaggio alla statua di John Lennon seduto su una panchina che campeggia in uno dei giardini del quartiere Vedado. A Cuba il muro della diffidenza verso il rock è caduto già da parecchi anni”.

Articolo Precedente

Obama a Cuba, stampa internazionale lasciata allo sbaraglio: 120 dollari per accedere alla sala stampa

next
Articolo Successivo

Turchia, il Pkk non è un’organizzazione terroristica

next