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I dati che vengono confermati dai sondaggi, da ultimo quello di Datamedia per Ballarò, danno il M5S al 27,2% e, a Italicum vigente, lo vedrebbero competere al ballottaggio con il Pd solo con un distacco dell’1%, almeno secondo l’ Emg di Masia.

E’ vero che come ha ribadito saggiamente anche all’incontro di Imola Beppe Grillo i sondaggi vanno considerati solo per quello che sono, però non possono nemmeno essere totalmente ignorati, anche perché, per quanto riguarda il M5S l’andamento positivo di graduale incremento è costante e non di breve periodo.

Con lo sfondamento del 27% il M5S, dato per esaurito, morto o quantomeno irrilevante migliaia di volte, conferma una vitalità e una solidità che la tattica delegittimatoria-denigratoria in atto da quando Grillo riempiva le piazze per chiedere ascolto istituzionale su legalità, trasparenza, attuazione della Costituzione su referendum e leggi di iniziativa popolare, non ha indebolito ma al contrario rafforzato.

Così come hanno fallito nel tempo la regola ferrea della marginalità, con l’eccezione de  Il Fatto Il Manifesto, che la stampa continua a riservare all’universo del M5S e la pratica consolidata di ignorare programmi e risultati a favore dell’enfatizzazione delle divisioni e delle presunte conflittualità: da ultima a Imola quella tra i fondatori, “ostinati” a detenere il comando, e il giovane Di Maio “stoppato” nelle sue legittime aspettative di leadership.

Ma dato che i fatti hanno la testa dura, che l’informazione non la fanno più solo le grandi testate e i salotti televisivi più o meno blasonati, a due anni e mezzo dall’ “irripetibile” 25% dell’esordio e soprattutto con un’opposizione non fittizia è il M5S, il convitato di pietra che tutti hanno finto di non vedere e non l’onnipresente Salvini, il vero antagonista di Matteo Renzi.

E’ indiscutibile che questo patrimonio di credibilità deriva in primo luogo dalla coerenza e cioè dall’aver dato seguito al programma: qualcosa di tanto logico e trasparente da fare scandalo nel sistema della partitocrazia vecchia e nuova.

Ora la forza incontestabile del M5S deve misurarsi con il volume di responsabilità che compete a chi è diventato alternativa credibile al governo del grande “innovatore” che dopo averne ricercato i voti, non ha per nulla sbarrato la strada a Denis Verdini e alla sua nutrita agenda.

La partita di Roma è particolarmente rilevante, se non decisiva, perché è nella capitale che la gestione del presidente-segretario si è incagliata fino ad implodere ed è lì che il M5S ha la possibilità concreta di vincere. Ma si tratta di una sfida molto difficile date le condizioni “proibitive” di partenza che richiede, al di là del dibattito su Di Battista, la scelta non solo di un candidato adeguato ma anche di una numerosa squadra di persone giuste al posto giusto.

Con il discredito e la sfiducia che aleggiano  sul Pd dopo Mafia Capitale e la gestione opportunistica del “caso” Marino, qualsiasi nome decente uscisse dalle consultazioni del M5S sarebbe sufficiente. Ma dato che le variabili sono molteplici e la situazione offre un panorama molto pittoresco di alleanze più o meno realistiche con candidati che vanno da Alfio Marchini a Giorgia Meloni, l’invito di Andrea Scanzi a scegliere un candidato “vincente”oltre che a sceglierlo in modo coerente con i valori del movimento non sembra campata in aria.

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