AusterlitzAusterlitz osserva il mondo circostante, ne intravede la fitta trama, assiste inosservato al vivere di uomini e cose nel loro sinfonico concertare. Ma alle cose in particolare, all’elaborazione oggettiva umana, frutto “dell’assurdo martellare e ribattere, tagliare, incollare e cucire” Austerlitz dedica un’attenzione speciale: in fondo sa che le cose nel loro sopravviverci lasceranno indizi e ricordi indelebili del nostro passaggio terreno.

Oggetti disparati, fotografie, mappe, fino ad arrivare alle svariate architetture di edifici di sobborghi, stazioni ferroviarie e strade urbane: in Austerlitz, romanzo di W.G. Sebald, l’ovunque non è mai banale, è deposito di un breve e ineffabile tempo vissuto e tutto diventa traccia della sua e della vita di coloro di cui è inconsciamente alla ricerca.

In Austerlitz, è tutto presagio di un ineluttabile resoconto che prende forma e rivela della sua insostenibile e rimossa “altra” esistenza.

Sebald ha dato vita ad un racconto di assoluta bellezza in cui, nella densissima e dettagliata narrazione di un maniacale osservatore qual è il suo protagonista, Austerlitz, si svela il vuoto di una vita ferita, affettivamente tranciata dalla stupida furia nazista, da un’intelligente organizzazione seriale di feroce sradicamento che lede un bambino, e segna irrimediabilmente l’uomo che sarà.

Catturano la mia attenzione opere d’arte e artefatti che per vie segrete s’infiltrano nella contemporaneità e soggiacciono simbolicamente al reale: in apparenza sembrano poco o per nulla in relazione con i fatti della nostra vita e invece fanno da volano per riflessioni sul mondo in cui viviamo da un punto di vista vertiginoso.

Non si tratta allora di recensire un libro o un film ma di comprendere in che misura alcune narrazioni possono offrire una chiave interpretativa sul mondo circostante. Se ciò non avviene per quel che mi riguarda non parlerei né di arte né di creazione, piuttosto di elaborazioni estetiche, che peraltro non disdegno ma che lasciano le cose come le hanno trovate e non ci turbano quel tanto da smuovere nuovi trasformativi interrogativi.

In questo senso, leggendo Austerlitz si è di fronte ad un’opera d’arte: aldilà del puro e irrinunciabile piacere di immergermi nella bellissima scrittura di Sebald, tra le molte emozioni che il romanzo provoca, ho pensato alla vicenda della donna in carcere a Milano per aver sfigurato con l’acido un suo ex fidanzato e che durante la detenzione ha dato luce ad un bambino. Ho dedicato una distratta attenzione al caso perchè tutti i media spingevano su quel tasto e poi stavo, appunto, leggendo il romanzo di Sebald che mi si riverberava intorno. La prima cosa che ho pensato quando ho saputo che avrebbero voluto toglierle il bambino è che sarebbe stata una crudele fesseria.

Ho pensato che solo gli specialisti autoreferenziali del contemporaneo sapere settoriale e parcellizzato potevano elaborare l’idiozia che il bambino va tolto alla madre per il suo bene (ma così non si toglie anche la madre al bambino?).

Poi ho saputo del capolavoro: la madre potrà vedere il suo bambino soltanto una volta a settimana (ma così il bambino non potrà vedere/sentire/percepire sua madre soltanto una volta alla settimana?).

Mi sembra ripetitivo ribadire qui che la relazione madre-figlio è fondamentale, che per il nascituro quella con la madre è un’esperienza su cui si edificano le successive relazioni interpersonali, che se si condiziona negativamente questo equilibrio il bambino potrà avere conseguenze sul suo sviluppo psicofisico, che autori come Bender, Spitz e Bowlby, ad esempio, hanno scritto degli effetti sempre negativi della separazione madre-figlio in tenerissima età.

Mi chiedo quanto è stato preso in considerazione il vissuto ancora tutto emotivo, istintuale ed affettivo del bambino, se un riflettere olistico di qualità sia mai riuscito a farsi strada nell’ormai ridicolo e pretenzioso repertorio semantico dell’esattezza introdotto nelle scienze umane e che le rende spesso così poco umane (lo psicologismo svetta per insulsaggine).

In caso di affidamento non so se il bambino verrà mai a sapere chi fossero i suoi veri genitori, ne se verrà a sapere soltanto che ad un certo punto della sua vita è stato adottato. Tuttavia la lettura di Austerlitz dà simbolica misura del dramma di dover ricostruire la trama della propria esistenza dopo essere stato privato dei propri affetti più cari in tenera età. Ad Austerlitz all’età di quattro anni vengono sottratti i genitori perché ebrei, al bimbo di Milano viene sottratta la madre per il suo comportamento criminale. Ma per il bambino è semplicemente sua madre ed egli non dovrebbe espiare alcuna colpa. Un bambino non giudica la propria madre: ne ha naturalmente bisogno. Quando sarà il momento, perché quel momento arriverà, come persuaderlo che quello di allontanarlo, appena nato, per sei giorni su sette da sua madre è stato un atto di giustizia? Nei confronti di chi? Non sta forse la madre scontando la sua condanna?

E allora cosa potrebbe insegnare Austerlitz al plotone di specialisti che si interpongono in nome della legge tra una madre e il suo bambino di circa un mese?

Che la ricerca delle proprie origini può diventare una vera e propria ossessione che si riflette sulle esperienze successive, che la vita in questo sforzo terribile di recupero di pezzi mancanti risulta compromessa, che i bambini crescono e le domande sorgeranno spontanee e che c’è poco da spiegare per porre rimedio ad un atto contro-natura.

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