E’ un sisma finanziario che colpisce il cuore di una rete invisibile, a capo di un sistema che – secondo l’accusa – da più di quarant’anni accompagna i soldi sporchi di tangenti, evasione fiscale e grandi traffici. Con una testa saldamente radicata nel Canton Ticino, nel regno delle finanziarie e dei fondi fiduciari, “scatole cinesi” protette per decenni da rogatorie che tornavano con i nomi coperti da omissis, nascosti dal segreto bancario. Si chiama Filippo Dollfus von Volckersberg, cittadino svizzero con una lunga lista di clienti di alto rango in Italia, già in rapporti con l’inglese David Mills, nel board di società anonime “cassaforte”, dove miliardi di euro passano discretamente, e oggi indagato per associazione per delinquere e riciclaggio. Un elenco che ora è in mano alla Procura di Milano, in grado di far saltare una parte della finanza milanese che conta.

Da due anni Dollfus sapeva che era meglio non mettere piede in Italia, dopo che la Guardia di Finanza di Busto Arsizio, guidata dal capitano Stefania Quarta, aveva deciso di seguire fino in fondo la pista dei soldi spariti del lodo Imi-Sir. Una operazione sospetta da 7 milioni di euro eseguita da un ragioniere bustocco aveva incuriosito i finanzieri, che – rapidamente – nel 2013 erano arrivati ad arrestare il commercialista milanese Gabriele Bravi. Ma non si erano fermati lì. Avevano prima provato a chiedere con una rogatoria informazioni alla giustizia svizzera, senza risultato. “Ci siamo intestarditi, sapevamo che eravamo sulla strada giusta”, raccontano oggi gli investigatori, coordinati dal pm milanese Roberto Pellicano. E le tracce di quei soldi hanno ora portato lontano, aprendo – per la prima volta – il sancta sanctorum di alcune tra le famiglie più in vista d’Italia.

La notte tra il 25 e il 26 aprile è stata fatale per Dollfus. Aveva deciso di rischiare, andando a Milano per partecipare al battesimo di una nipotina. Il confine lo ha superato di notte, spegnendo tutti i telefoni cellulari. In poche ore è scattata la caccia all’uomo, resa difficile dall’incredibile assenza di una qualsiasi fotografia del finanziere svizzero: nessuno sapeva che aspetto avesse. Un’ombra, un fantasma, un semplice nome. Alla fine i finanzieri lo hanno aspettato sotto il suo lussuoso appartamento di fronte al Castello Sforzesco nel cuore di Milano, per trasferirlo – dopo la convalida del fermo – a San Vittore. L’aria, per lui, era cambiata.

Aldilà dell’arresto, il colpo grosso degli investigatori italiani è l’aver aperto le porte degli uffici discreti della rete di Dellfus. Fino ad ora i conti parlano di almeno 850 milioni di euro riciclati attraverso il sistema delle fiduciarie. Ma la cifra reale potrebbe raggiungere diversi miliardi di euro, coprendo quarant’anni di attività. La sua storia si è incrociata diverse volte con i misteri italiani, soprattutto quando in ballo c’erano tesori da nascondere o investitori che non amavano apparire.

La lista Dellfus – Il primo elenco, ancora assolutamente parziale, dei clienti italiani di Filippo Dollfus che appare nelle carte dell’inchiesta finora note è una rosa di esponenti dell’imprenditoria e della nobiltà italiana: da Carlo Bonomi a Massimo Pessina, da Francesco Caltagirone Bellavista, fino a Giberto e Vitaliano Borromeo. Per l’erede del Principe delle isole sul Lago Maggiore scomparso a febbraio, il Gip formula un’ipotesi di evasione fiscale che sarebbe avvenuta attraverso una galassia di società lussemburghesi. Con un volto ben noto alle cronache, quello di Daniele Lorenzano, coimputato di Silvio Berlusconi nel processo per i diritti televisivi, condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi. Secondo il Gip di Milano che ha convalidato l’arresto di Filippo Dollfus, gli imprenditori citati farebbero parte di una “clientela diffusa su tutto il territorio nazionale e ramificata in svariati settori commerciali”. Clienti “interessati a trasferire all’estero ed occultare denaro o utilità nella gran parte dei casi proveniente da delitti di appropriazione indebita, evasione fiscale, corruzione o riciclaggio”. Una lista ora al vaglio della Procura, che rappresenta solo la minima parte di 450 nomi di “persone fisiche e società” trovati nelle carte sequestrate negli uffici riconducibili a Dollfus e Bravi. Insomma il preludio di un terremoto di portata incalcolabile.

Il ruolo di Francesco Bellavista Caltagirone e della famiglia Rovelli
Per il consulente tecnico della Procura l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone era uno “dei più grossi clienti dell’organizzazione”. Secondo gli investigatori, il gruppo Dollfus avrebbe ripulito i soldi derivati dai reati di appropriazione indebita e frode nelle pubbliche forniture contestati dalla Procura di Civitavecchia, derivanti dal progetto di realizzazione del porto turistico nella città nel nord del Lazio.

I soldi che arrivavano nei conti svizzeri gestiti dal finanziere arrestato la scorsa settimana avevano anche l’odore di storie antiche. Come quella del lodo Imi-Sir, la vicenda giudiziaria che portò alla condanna di Cesare Previti. Nel 2013 la prima parte dell’inchiesta di oggi aveva portato all’iscrizione nel registro degli indagati di Rita Rovelli, la figlia del petroliere al centro del caso Imi-Sir, ex moglie di Francesco Bellavista Caltagirone. In questo caso secondo i magistrati milanesi i fondi arrivati al gruppo Dollfus sarebbero frutto di attività illecita (la corruzione), facendo quindi scattare l’ipotesi di riciclaggio, contestata insieme all’associazione per delinquere.

In fondo al mare
Il nome del finanziere svizzero era già noto fin dagli anni ’90, quando la Procura di Reggio Calabria stava indagando su un presunto traffico di rifiuti radioattivi (fascicolo poi archiviato dal Gip nel 2001, su richiesta della Procura distrettuale antimafia). L’inchiesta era nata, anche in quel caso, sul confine tra Italia e Svizzera. La Guardia di Finanza di Lecco fermò nel 1993 un imprenditore già indagato in precedenza per illeciti finanziari e reati contro l’ambiente. Nella sua valigia trovarono i progetti di alcuni siluri in grado di seppellire nei fondali marini le scorie radioattive. Con una sigla fino a quel momento sconosciuta, la ODM di Lugano. L’uomo doveva incontrare nel Canton Ticino il direttore tecnico e principale socio di quel gruppo, l’italiano Giorgio Comerio, originario di Busto Arsizio. Venne aperto un fascicolo con l’ipotesi di violazione delle norme sulla gestione dei rifiuti radioattivi, poi chiuso per prescrizione del reato sette anni dopo. Quell’informativa, però, venne nel frattempo trasmessa alla Procura di Reggio Calabria, che dal 1994 stava approfondendo l’ipotesi di una serie di affondamenti dolosi di navi cariche di scorie nelle acqua del Mediterraneo.

Il 13 maggio del 1995 il nucleo investigativo del Corpo forestale dello Stato di Brescia, insieme al capitano della Guardia Costiera Natale De Grazia perquisirono l’abitazione di Giorgio Comerio, trovando la documentazione societaria della ODM. Tra i soci spuntò anche il nome di Filippo Dellfus, fino a quel momento poco noto. Non fu chiaro se avesse comprato le azioni in proprio o nella sua funzione di fiduciario. Nel 1997 Greenpeace international – che aveva già da tempo denunciato l’impresa di Giorgio Comerio – divulgò un corposo report, intitolato The network. Il ruolo di Dollfus era centrale, uno dei gangli vitali di quella rete di relazioni, incroci societari, accordi tra fiduciarie che gravitava attorno alla Holding disposta ad affondare in mare i rifiuti radioattivi. Un progetto, questo, che lo stesso Comerio non ha mai smentito e che, anzi, veniva pubblicizzato sul sito internet della ODM.

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