Che tipo di segnale è quello della presenza massiccia del nostro grande cinema al Festival di Cannes di quest’anno? E’ il segno che qualcosa si muove nel pachiderma produttivo dell’industria italiana oppure è il segno che come sempre viaggiamo all’ombra dell’invenzione singolare, dell’autorialità riconosciuta, della produzione di ambizione internazionale?

Cominciamo col dire che il concorso di quest’anno ospita tre nostri autori che a Cannes sono quasi di casa: Nanni Moretti, Palma d’oro nel 2001, va a Cannes per l’undicesima volta come regista, Paolo Sorrentino, Premio della giuria con Il divo, ci va per la sesta volta, e Matteo Garrone, Grand Prix con Gomorra e poi con Reality, ci va per la terza volta. Chi è amato da Cannes lo è per sempre. E siccome i tre sono degli habitués dei premi, le aspettative sono molto alte. Del resto il cinema italiano ha sempre riscosso molti consensi. Tutti i nostri grandi autori – da Rossellini ad Antonioni, da Fellini a Visconti, da Pasolini a Ferreri – sono stati riconosciuti e premiati.

Ma il punto non è questo. Il punto è invece vedere cosa c’è sotto gli autori, di cosa è espressione quest’anno la massiccia invasione degli italiens (c’è anche, in Un certain regard, Roberto Minervini). L’insolita dichiarazione congiunta dei tre autori che si dicono orgogliosi di rappresentare il cinema italiano e che sperano di costituire uno stimolo per tutti quei cineasti che cercano strade non convenzionali è il segno della vivacità del nostro cinema. Ma questi film, che pure prevedibilmente mieteranno successi, non sono il prodotto di una vera e propria industria matura. Soprattutto non sono espressione di una cultura di cinema diffusa.

Continuiamo ad essere un paese a doppia velocità per il cinema. I dati sono chiari: anche se dal punto di vista produttivo il quadro segnala una ripresa, dal punto di vista del pubblico la situazione è più fluida. L’anno scorso si è perso il 6 % di presenze in sala rispetto all’anno precedente, quando il solo Sole a catinelle aveva raccolto l’8 % del pubblico. Inoltre, è vero che ci sono molti set, ma l’investimento medio per film diminuisce, con molti film che si girano ormai a basso o bassissimo budget. Al di fuori delle occasioni dei festival, il cinema italiano dipende da titoli-boom, di solito commedie a consumo immediato che costruiscono un pubblico estremamente fragile, un pubblico che va al cinema tendenzialmente solo per questo tipo di film.

Insomma, un quadro a due colori. Da una parte il rosa dell’immagine internazionale dell’Italia, dall’altra il grigio del cinema quotidiano, che vede lo spazio per le produzioni indipendenti sempre molto stretto, la struttura della distribuzione troppo fragile (non è possibile che se un film di un esordiente non funziona nel primo week-end di fatto esca subito dalla programmazione), il piccolo esercizio minacciato e tutto il sistema sofferente per alcune debolezze strutturali, come la desertificazione dell’estate. Non basta sventolare la bandiera quando la nostra nazionale incontra gli altri paesi, bisogna anche curare l’allenamento di ogni giorno. Altrimenti la squadra prima o poi perderà il campionato.

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