Questa volta arriva dalla Chiesa, per l’esattezza dalla comunità papa Giovanni XXIII, la nuova ricetta (ovviamente tutta al femminile) per far crescere i figli sani. Dopo gli 80 euro del premier Renzi, questa volta la posta è più alta: 800 euro al mese alle neomamme per i primi tre anni di vita del bambino, a patto che decidano di stare in casa dal lavoro e di rinunciare al nido. La proposta, lanciata a Bologna dal responsabile generale dell’associazione, Giovanni Paolo Ramonda, avrebbe come effetto addirittura quello di diminuire il numero dei detenuti e l’abuso di sostanze da parte dei giovani. Questo, a dir suo, per avvicinare l’Italia al resto d’Europa.

Niente da obiettare sulla necessità di un reddito di cittadinanza, né tantomeno sul ruolo fondamentale della madre nell’educazione dei figli. Salvo alcune obiezioni.

In primo luogo: più che di ruolo materno sarebbe ora di riferirsi al ruolo genitoriale, cioè alla coppia. La parità di genere passa anche attraverso la parità dei ruoli in famiglia, entrambi essenziali seppur nelle differenze.

In secondo luogo: per lo stesso motivo, il reddito di cittadinanza, nonché la possibilità di usufruire del congedo parentale, dovrebbe forse riguardare le mamme quanto i papà. Un po’ come in Svezia dove i padri hanno diritto a 30 giorni di astensione dal lavoro oppure in Norvegia dove il 97% dei papà sceglie di usufruire della paternità per 4 settimane.

In terzo luogo: se vogliamo proprio avvicinarci all’Europa andrebbe compreso in Francia, in Germania o ancora più a nord, le cose stanno in maniera diversa e non si limitano al reddito di cittadinanza. Ma soprattutto, nel resto dell’Europa, una volta terminato il congedo, il reddito di cittadinanza e gli ammortizzatori, è probabile che un lavoro lo ritrovi. Quello che cambia quindi è l’approccio alla maternità, intesa non come periodo improduttivo a carico dello Stato, ma come momento di crescita anche economica del paese, tanto da incentivarla. Alla base c’è una diversa cultura dell’infanzia, cosa ben diversa dall’assegnare solo al ruolo materno l’unica via di salvezza per i nostri figli. Come ho spiegato più volte in diversi post, in Germania o in Francia si tratta di riforme di welfare sostanziali, rivolte alle famiglie nel loro complesso, che tirano in ballo un sistema di servizi complessivo che vanno dall’incremento alla qualità dei nidi, dai congedi parentali condivisi alle garanzie sull’orario di lavoro, dalle città a misura di bambino agli spazi lavorativi ripensati per conciliare lavoro e famiglia. Tutte riforme che denotano una cultura dell’infanzia intesa non in termini di cura tutta al femminile e neanche di assistenzialismo ma come responsabilità collettiva e condivisa.

Allora perché non trovare strade alternative alla sola idea di mettere la donna in condizioni di scegliere tra famiglia o lavoro? Ad esempio proporre la settimana corta per chi ha figli piccoli ma con lo stesso stipendio oppure incentivare il telelavoro e le libere professioni, invece di stroncare chi solo osa aprirsi una partita Iva. Una mamma che lavora non ha meno diritti di una donna che non lavora, tutt’altro. Talvolta il reddito percepito se ne va per nidi privati e baby sitter. E allora, perché creare famiglie di serie A e famiglie di serie B?

Questa proposta fa compiere alla donna mille passi indietro e rappresenta uno specchietto per le allodole, che non tiene conto della realtà dei fatti: cosa sarà delle neomamme che alla fine dei tre anni non avranno più diritto agli 800 euro e si ritroveranno da sole in casa, con un figlio quasi grande a scuola e senza un lavoro?

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