Gli ulivi del Salento s’ammalano, ma gli interessi abbondano. Una partita complicata, tanto da portare il Consiglio dei Ministri, il 10 febbraio, a proclamare lo stato di emergenza, che sarà gestito da Giuseppe Silletti, comandante del Corpo Forestale in Puglia. Oggi è la giornata dell’ufficializzazione della sua nomina a commissario straordinario, in una conferenza stampa congiunta del ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, e del capo della Protezione civile, Franco Gabrielli. Sarà la svolta? Forse. Ciò che è certo è che il territorio, da tutta questa storia, rischia di uscirne stritolato. Le avvisaglie valgono più di qualche indizio. “Le grandi catene commerciali vogliono certezze a lungo termine. E ce lo dicono chiaramente: modificate il prodotto, lasciate perdere l’olio, buttatevi su altro”, racconta un imprenditore che spedisce a Londra il suo oro giallo.

L’agricoltura pugliese fa i conti con se stessa ed è esattamente di fronte a quel bivio: farsi condizionare da quello che chiedono gli altri, mercato globale e Ue in primis, o difendere le sue radici e tentare di farcela, anche a costo di dire qualche no. A cambiare le carte in tavola è il “Codiro”, complesso del disseccamento rapido dell’oliv”, fitopatia presente in Europa solo nel Salento e figlia di un mix tra funghi, azione di insetti e un batterio da quarantena, Xylella fastidiosa, che ha messo in allarme l’Europa e sulla cui presenza indaga la Procura di Lecce.

UNA MALATTIA A VANTAGGIO DI CHI? È una frustata che fa moltiplicare appetiti e qualche speculazione: con gli interventi chimici obbligatori appena previsti dalla Regione Puglia, potrebbero saltare quasi mille certificazioni biologiche solo nel Leccese; il blocco totale della movimentazione di migliaia di piante a rischio, seppure sane, ha sfinito i 150 vivai esistenti; Paesi come l’Algeria hanno imposto l’embargo alle viti, benché fuori pericolo, stringendo il cappio al collo agli storici produttori di barbatelle di Otranto. Poi, ci sono le coincidenze che gettano ombre lunghe: dal 2008, la multinazionale Monsanto, colosso della produzione di sementi transgeniche, si occupa anche della selezione di specie resistenti al batterio riscontrato nel Tacco d’Italia. Lo fa attraverso “Allelyx”, società partecipata che ha per nome l’anagramma di “Xylella”.

PRODUTTORI AL PALO. L’intero comparto olivicolo sa di non avere tempo: “A chi di noi esporta vengono chieste garanzie sul rifornimento per un ampio periodo, perché i rivenditori investono nel brand delle nostre varietà e fidelizzano i consumatori. Noi, però, non sappiamo cosa accadrà già domani”. Pantaleo Greco, presidente di Aprol Lecce, parla al futuro di “un’ecatombe di ogni rapporto commerciale in piedi con l’estero”.
Eppure, la qualità resta la stessa. Ma al mercato non basta, chiede olio di massa, vuole quantità, mentre qui, anche nella migliore delle ipotesi, si prefigura il black out della produzione almeno per un po’. “Gli alberi colpiti, pure accuditi, ci metteranno due o tre anni per rifiorire, sempre se ce la faranno”. Enzo Manni è a capo di una delle cooperative agricole più importanti, l’Acli di Racale, e tiene il conto della parabola discendente: “Nel 2013 abbiamo prodotto mille quintali di extravergine; nel 2014 appena 130”.

XYLELLA O ALTRO? Quanto in questo dato c’entra la fitopatia? Al momento, ancora poco, visto che a far danni è stata soprattutto la mosca dell’olivo. Una stima che lui stesso definisce “azzardata” la dà Donato Boscia, pilastro dell’Istituto di Virologia vegetale del Cnr di Bari: “l’oliveto leccese (95mila ettari) è stato attaccato, con intensità diversa, per il 10 per cento, su cui si è registrato un calo della metà della produzione, corrispondente al 5 per cento a livello provinciale e all’1 per cento a livello regionale”. Numeri tutto sommato contenuti, ma che vanno innestati sulla geografia: intorno a Gallipoli alcuni raccolti sono stati pari a zero e nella fascia più a sud si è registrato il -70 per cento. Davvero dipende tutto da Xylella? La risposta l’ha data a luglio la Dg Sanco, costola della Commissione europea: su 1757 campioni prelevati sulle piante sintomatiche nelle zone critiche, solo 21 sono risultati positivi al test su quel batterio. Ciononostante, focolai sparsi hanno portato a dichiarare, a fine gennaio, ufficialmente “area infetta” la quasi totalità della provincia di Lecce.

INTERVENTI OBBLIGATORI PER TUTTI: CHIMICA A GO GO E TAGLI DI ULIVI. La soluzione per il “Codiro”? Ad oggi, sta solo nel fermare l’insetto vettore. Il 6 febbraio scorso, la Regione ha varato un piano di lotta obbligatoria: oneri a carico dei proprietari di tutti i fondi leccesi, controlli affidati alla Forestale, lettere di messa in mora e interventi in sostituzione da parte dell’agenzia regionale Arif. Sono imposte le pratiche di potatura, trinciatura, aratura, ma anche, a partire da maggio, due interventi insetticidi con fitofarmaci su ogni albero. Uno schiaffo per mille produttori bio e una mazzata ambientale.

Poi, c’è il capitolo spinoso relativo all’espianto di migliaia di piante. Se ne ridiscuterà in Commissione europea, il 26 e 27 febbraio. Per Bari e Roma, è inutile e costoso e va limitato solo alla “fascia di eradicazione”, ampia un chilometro, a nord del Salento. Bruxelles, invece, insiste con la necessità di estirpare ovunque tutti gli ulivi infetti. Di più, impedisce il reimpianto delle stesse cultivar. In soldoni, sta spingendo l’olivicoltura salentina a scordarsi di sé.

PUGLIA AL BIVIO. Ci sono alternative? Si procede a tentoni. E non si può fare altrimenti, visto che la ricerca ha i suoi tempi. Eppure, nell’incertezza, chi sta testando empiricamente da mesi, con successo, pratiche agricole naturali salva-ulivi viene preso per visionario, come accade all’associazione Spazi Popolari. Ora, è arrivato il commissario, dotato di poteri straordinari. Per fare cosa? Dipende da quali interessi farà prevalere e da quale strada, a quel bivio, la Puglia vorrà imboccare.

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